Bianca Censori a Los Angeles, California. (foto KZLLC/Bauer-Griffin/GC Images) 

La mutazione della pelliccia

Fabiana Giacomotti

Non la indosseranno più le signore, ma qualcun altro sì. Il declino di un simbolo del lusso, l’ipocrisia e la sostenibilità

Intervistati dal “Corriere della Sera”, che è pur sempre testata del gruppo Rizzoli e qualche boomer ricorda come un tempo pubblicasse il settimanale “Annabella” al quale si era ispirato negli anni Cinquanta il medico internista Giuliano Ravizza per rilanciare i cinque negozi di famiglia (il settimanale invece diventò “Anna”, poi una “A” sbilenca, e un’elisione dopo l’altra sparì per inerzia e malagestione), gli eredi hanno lamentato disgrazie ampiamente conosciute dal settore. Hanno detto che la pelliccia non è più uno status symbol come negli anni Ottanta in cui il loro nome dominava i quiz televisivi e Alain Delon sedeva in prima fila alle sfilate (volessimo essere onesti, la pelliccia faceva status da qualche millennio in tutte le culture, per non dire in Occidente dalla fine dell’Ottocento quando anche ai borghesi fu concesso di indossare l’ermellino, ma chi siamo noi per sottilizzare e un cronista per ribattere), ma anche che nulla fa tristezza come vedere i locali tutti specchi o modanature dove un tempo due venditori attendevano alle esigenze di ogni cliente finiti in mano al fast fashion (chissà che cosa dovremmo dire a Milano di Galtrucco che si faceva disegnare gli spazi da Melchiorre Bega e chiamava Fausto Melotti a ornarli di sculture), per non dire della diminutio di dover lavorare sulle pelli riciclate e la lana arricciolata a imitazione breitschwanz invece di poter mostrare volpi e visoni debitamente scuoiati. 


Il che è vero, ma decisamente parziale. Tutto quello che raccontano i Ravizza e i loro ultimi dipendenti è infatti applicabile al caso di una signora bianca benestante di mezza età abitante nel centro di Milano o anche di Pavia o pure di Madison Avenue altezza sessantatreesima che segue la moda, ma è del tutto sconnessa dalla realtà dei giovani asiatici, dei russi, ma in particolare dei rapper afroamericani compresi quelli accusati di stupro come Sean Combs che sfoggia cappotti di lupo e visoni lunghi fino ai piedi, oltre a una serie di categorie sociali e umane alle quali nessuno oserebbe rivolgere la benché minima osservazione per non essere tacciato di razzismo, che nella scala del follemente corretto sta una spanna sopra il diritto alla vita degli animali da pelliccia e altezze himalayane sopra le prerogative delle specie ittiche, degli invertebrati, dei rettili e dei monocellulari di non essere soffocati dagli scarti di lavorazione delle pellicce sintetiche “effetto reale” di cui si sono invece popolati i mercati rionali della penisola. 


Un mese fa ero a Piacenza per una rappresentazione della “Vestale” di Spontini al Teatro Municipale e sotto le due statuone equestri dei Farnese era tutta una distesa di finti visoni scintillanti di polipropilene e nylon, se avessi acceso un cerino lì in mezzo sarebbe andata a fuoco la città. Il woke della pelliccia, ovvero la straordinaria ipocrisia che circonda il settore più malandato dell’industria della moda occidentale, ogni anno un otto-dieci per cento di fatturato in meno al punto che tanti produttori, per sopravvivere, si sono convertiti al capospalla di lana e all’imbottito, potrebbe essere sintetizzata dall’affermazione che una giovane collega di belle speranze e molte ambizioni vergò sulla sua newsletter qualche mese prima di farsi assumere da uno storico marchio italiano come esperta di comunicazione creativa, e cioè che sapeva benissimo quanto la pelliccia sintetica inquinasse, ma che fosse “più presentabile” agli occhi degli altri. 


Tranne che per le categorie sotto tutela sopraddette delle quali fanno parte per motivi incomprensibili anche le sciure cortinesi, una specie vanziniana che se ne infischia delle ritrosie cittadine lombarde e che ogni anno festeggia la propria adesione alle Vacanze di Natale primigenie sfoggiando le fasce per capelli di visone col fiocco di seta sulla nuca in voga nel 1981, per la moda in crisi la presentabilità potrebbe finire in una voce di bilancio, anzi vi compare di già fra le voci di marketing, e include una variegata serie di attività che vanno dall’adesione ai cartelli internazionali per l’abolizione della pelliccia animale fino alle sottigliezze linguistiche, terreno prediletto dal woke. Anche in questo caso, il gradiente della presentabilità, cioè dei distinguo, è variabile per geografia, cultura, narrativa comunemente accettata, gradevolezza estetica dell’animale: tutte le maison hanno infatti abolito la pelliccia di visone e di volpe, nessuna le borsette di coccodrillo. 


In caso ne volessi acquistare una, trentacinquemila euro di media il costo, mi verrebbe spiegato che la pelle proviene da allevamenti di proprietà della maison stessa nel sud est asiatico, certificati, non certo da animali selvaggi, distogliendo insomma la mia attenzione da due dati fondamentali: il primo che, allevati o meno, i coccodrilli e i pitoni vengono ammazzati e tinti per essere trasformati in borsette e cinture e che solo in Cina e in Australia se ne mangiano le carni (molti anni fa a Hayman Island, in Australia, mi venne servito uno sformatino di coccodrillo e io che non mangio carne dovetti scappare in bagno) e, secondo, che nessun conciatore al mondo vuole avere a che fare con animali allo stato brado perché quello stile di vita include, esattamente come per gli umani, incidenti di percorso, cioè cicatrici, che rendono le pelli meno pregiate. 


Ma i coccodrilli ci piacciono meno delle volpi, che ricoprono ruoli di rilievo anche nelle favole di Esopo, dunque nella scala della presentabilità contano zero o quasi. Poi ci sono appunto le cortinesi, locali e importate, che partono da Milano o da Lesa col cappotto di lana riciclata e infilano la volpe appena aperta la porta della baita, anzi della “chesa”. Daniela Kraler, ras della moda sotto le Dolomiti, mi dice che le pellicce sintetiche guai, che lei proprio non ama, per non dire di quanto siano insostenibili per l’ambiente, che può fare un’eccezione per “quelle di lana” a imitazione del pelo vero (e che dopotutto pelo vero è: tendiamo a dimenticare che la lana è un vello animale filato) ma che nelle sue boutique lei vende soprattutto le pellicce vere, coloratissime, e pure “molto bene”. 


In nome della presentabilità, nella moda la versione ufficiale differisce spesso dalla realtà dei fatti e dalla loro definizione. Qualche mese fa, nel backstage di una sfilata uomo di Fendi, ho accostato un modello avvolto in quella che era in tutta evidenza una giacca di pelo rasato, volevo capire quale; quando ho osato chiederne la provenienza mi è stato risposto che si trattava di un agnello, anzi di un “montoncino”. Non lo era, ed era certamente destinato ai Paesi dove mangiano non solo gli animali di ogni specie ma anche gli attivisti no fur. 


Per mia disgrazia anagrafica, appartengo alla generazione che, avendo ereditato lontre e molte altre pelli proibitissime delle mamme senza sapere come disfarmene per non incorrere nella riprovazione generale al momento della denuncia, ma sperando sempre che si dissolvano da sole nell’armadio come è avvenuto per i cappelli della bisnonna con gli uccellini impagliati, giusto lo schifo di buttar via quelle carcasse rosicchiate dagli insetti e di disinfettare il cassone dove erano contenute, sono ancora in grado di distinguere una pelliccia da un’altra. Però, nella scala dell’accettabilità dei velli, che non è per niente velleitaria, la giacca di montone o di pelle rientra nella catena alimentare e dunque si può citare, anche a sproposito, mentre il visone no. 


“E’ incredibile quanti montoni e quanti agnelli si mangino in Italia”, sospira furbetta Elena Salvaneschi che dirige l’associazione di categoria, The One Milano come si chiama da quando i produttori di pellicce hanno dovuto ampliare le attività mentre gli allevamenti, cioè la dozzina rimasta dopo gli autodafé e i picchetti dell’ultimo decennio - anche giusti per carità, chi ha mai bisogno di pellicce con una media dicembrina di quindici gradi all’ora di colazione - sono stati chiusi in via definitiva. E’ accaduto nel 2020, benché quasi nessuno se ne sia accorto, impegnati come eravamo anche noi a resistere alla cattività imposta dalla pandemia. 


Nei Paesi Bassi si scoprì infatti che i visoni contraevano il coronavirus tale quale gli umani e l’allora ministro della salute Roberto Speranza impose la chiusura degli allevamenti su tutto territorio nazionale, proibendo però l’abbattimento degli animali sani e approvando invece un ristoro per il loro mantenimento. Risultato: a oggi risultano viventi in Italia circa duemila animali da pelliccia, mentre dei ristori promessi, meno di venti milioni di euro, pare sia stato liquidato circa un terzo. Chi ancora li mantiene spera che muoiano di vecchiaia quanto prima, e ha già messo a bilancio il costo per il loro smaltimento. 


La piramide, o scala della presentabilità della pelliccia, è però e anche anagrafica, cioè relativa all’età della pelle stessa e di chi la indossa, come avrete capito le variabili e le idiosincrasie attorno al tema pelliccia sono più numerose di quelle sui testi delle canzoni di Tony Effe. Nessuno se la prende infatti con la signora ottantenne che esce a fare la spesa indossando il turbante di lana e il visone acquistato a forza di risparmi quarant’anni fa e come tale percepibile dal taglio, e nell’ambiente della moda fa abbastanza cool, cioè figo, che una ventenne indossi la stessa cappa della stessa nonna senza modificarla, cioè rigida e incartapecorita (sui social consigliano anzi di argomentare con chi ti desse della stronza irresponsabile lungo la via la storia del capospalla e i motivi altamente etici per non dire economici per i quali non si è voluto rimetterlo a modello e magari farlo conciare secondo le tecniche attuali, potrebbe anche uscirne una bella conoscenza). 


Mentre due settimane fa un centinaio di studenti delle scuole di moda sono stati ospiti del centro di ricerca sulla pelliccia a Milano e l’unica domanda vagamente inquisitoria che abbiano rivolto ai responsabili riguardava le condizioni di vita degli animali, per il resto evviva, e che belle queste pelli colorate, l’obiettivo, le cible, della pubblica riprovazione e degli insulti, risultano essere in fondo solo le signore di cui scrivevo nelle prime righe, cioè le bianche cittadine di mezza età, e questo per tutta una serie di motivi, che vanno dalla responsabilità che – tocca mi inserisca anche io - dovremmo assumerci a causa del nostro dna e della nostra nascita, oltre all’esposizione alle campagne anti-pelliccia o “anti-fur” a cui siamo state esposte in occidente da vent’anni a questa parte e che dovrebbero imporci una sorta di responsabilità autonoma. 


I pellicciai, scusate l’auto-citazione, ma ogni tot anni siamo punto e a capo, ci chiamano la “lost generation”, la generazione perduta, come quella di Francis Scott Fitzgerald che però era impellicciata a prescindere dal genere e tracannava whisky di contrabbando come se non avesse un domani e come infatti non ha avuto. Il nostro momento spartiacque, il nostro anti-fur moment per dirla nel lessico modaiolo, non furono Mario Capanna e le uova marce tirate alle sciurette della Prima della Scala alla fine degli anni Sessanta; fu Marina Ripa di Meana nei primi dei Novanta nuda sui manifesti con sontuoso vello pubico personale e quella scritta realmente anti-borghese: “l’unica pelliccia che non mi vergogno di indossare”. Si usciva dagli Ottanta reaganiani delle mantelle di visone di Melanie Griffith del “Falò della Vanità”: le associazioni animaliste ingaggiavano le prime battaglie su scala mondiale, coinvolgendo modelle e testimonial importanti. 
Nonostante alcune campagne avessero scopi fuorvianti, si basassero su assunti errati o fossero francamente ridicole (l’ultima, a favore dei conigli d’angora, non ha avuto praticamente eco), le attività delle associazioni no fur hanno comunque raggiunto lo scopo prefisso, e cioè stigmatizzare gli utilizzatori di pelliccia. Hanno mirato per anni agli adulti delle città metropolitane, e almeno lì hanno fatto centro. Tutti gli altri, sono protetti dalle diverse declinazioni del woke.