Il foglio della moda - i vanti della moda
Da troppi anni, alla moda manca la progettazione
Tra i nomi che danno speranza ci sono Craig Green, Samuel Ross/A-cold-wall, Lemaire e Prada che possono essere considerati un esempio di come funzionalità ed estetica si definiscano a vicenda
Tra moda e architettura c’è un rapporto duraturo e singolare, intriso di ispirazioni comuni in quanto arti applicate ma anche di perplessità, per lo meno verso la moda. È una relazione in bilico tra la totale disistima - un filo sessista pure per i tempi - di Le Corbusier (“le piume in testa a una donna sono a volte graziose, a volte meno, ma mai niente di più”) e la lungimiranza progettuale di Coco Chanel: “La moda è come l’architettura, è solo una questione di proporzioni”. Le cose non si svolgono sempre come nella sintesi brillante di Chanel: nella moda di oggi, piuttosto, le proporzioni si smarriscono spesso nella facile riconoscibilità dei contenuti, dove l’ossessione per la “reference”, il riferimento più o meno culturale, porta ad associazioni abbastanza ovvie con la cultura pop e la sua gratificazione immediata, o al massimo con l’arte visiva, che con la moda, e la sua riproduzione e diffusione, ha un legame intrinseco.
La tentazione dell’effetto-Instagram però ha toccato, e non si sa quanto loro malgrado, pure molti architetti che negli ultimi due decenni sono diventati archistar. Soprattutto, star, e che la moda ha subito ingaggiato anche per progetti estranei, o tangenziali, alla loro formazione e alle loro attività. Chiunque di noi potrebbe elencare almeno una decina di nomi e abbinarli a qualche accessorio “iconico”, espressione di una “collab” mercenaria, in genere scolastica e poco rilevante (chi si ricorda veramente di un accessorio di Zaha Hadid o Karim Rashid?) ma avrebbe sicuramente più difficoltà a indicare lo stile e la scuola di pensiero del suo autore. Eppure, l’architettura è parte delle nostre vite e delle nostre città, e in questo periodo ancora indecifrabile, fra guerre e crisi di stati che sembravano monoliti inscalfibili, da diverse parti arrivano inaspettati segnali di interesse per il pensiero architettonico: è il caso per esempio del rinnovato successo di una scrittrice come Ayn Rand, capostipite di una corrente filosofica talmente votata all’individualismo da trovare posto nel pantheon della nuova destra americana e del tycoon Peter Thiel in particolare, e del suo “La fonte meravigliosa”, ispirato, con molta enfasi e un surplus di superomismo, a Frank Lloyd Wright.
La relazione fra architettura e moda è un tema importante, che ci sollecita ad andare oltre uno storytelling di corto respiro, basato sulla citazione hic et nunc di pronto consumo e che non può essere solo uno spunto per trafiletti sugli stilisti e i loro studi di gioventù, come per Tom Ford, Casey Cadwallader, Virgil Abloh e naturalmente Gianfranco Ferré, il più rigoroso nell’applicare un metodo che gli imponeva di “sognare razionalmente” e di filtrare le emozioni attraverso un’ottica progettuale, sebbene detestasse essere definito “architetto”: ai collaboratori chiedeva di essere definito “signor Ferré”, conscio, come tutti gli esponenti della vecchia scuola, che per essere chiamati dottori basta il parcheggiatore napoletano che mira a incensarti per ottenere una mancia, ma che essere considerati “signori” sia un premio.
Non è necessario essere architetti per integrare un certo tipo di visione all'interno della propria moda, lo sa bene Hussein Chalayan, designer che avrebbe meritato maggior fortuna e riconoscimenti, e che ha fatto proprio il concetto di funzionalismo attraverso l’uso di materiali non convenzionali, capi trasformabili, dinamici e scomponibili.
Lavorare su un abito significa pensare in maniera tridimensionale, anche quando la tridimensionalità è percepibile solo nel momento in cui il capo è indossato, e significa immaginare volumi e spazi, pieni e vuoti, elementi che creano la struttura del capo e altri liberi di accompagnare il movimento del corpo. Progettare un abito è un esercizio intellettuale applicato all’artigianato e all'industria, e tanto vale pensare in grande, ipotizzando nuove silhouette e funzionalità che ci possono permettere di andare oltre il riferimento spicciolo, la ripetitività banale di forme e dettagli visti qualche migliaio di volte di troppo. In questi giorni di sfilate uomo, e seguendo lo spirito del tempo, collezioni come quelle di Craig Green, Samuel Ross/A-COLD-WALL*, Lemaire, Prada, possono essere un esempio di come funzionalità ed estetica si definiscano a vicenda e di come si possa progettare a partire da un ragionamento, oltre che dal sentimento, e da una visione a lungo termine. E scrivere un ulteriore capitolo nella complicata relazione tra moda e architettura che vada oltre la progettazione di boutique e la ricerca di location suggestive per le sfilate. Mai come ora abbiamo bisogno di una moda che pensi in grande, raccolga e rilanci sfide progettuali ambiziose quanto quelle della “cugina” architettura.