(Ansa)

Il foglio della moda

Il cliente nel suo labirinto: i negozi non sono più solo spazi di vendita

Conversazione fattuale e ironica con Claudia Campone, designer di superfici di vendita pop e boutique del lusso, fra percorsi obbligati e che, nonostante la teatralità degli allestimenti e il consueto diktat contemporaneo sulla “narrativa”, finiscono sempre in bocca al minotauro: la cassa

“Lo sa che i negozi di moda, soprattutto quelli di lusso, sono strutturati come labirinti, vero?”, dice con tono sibillino, convinta che l’interlocutore colga al volo l’insinuazione. “Veramente no”. Dalla sua finestra su Zoom, la designer Claudia Campone, fondatrice di THiRTYONE Design + Management, partner degli allestimenti di una serie considerevole di griffe (“THIRTiONE con la ‘i’ minuscola, mi raccomando”, perché incarna la sua filosofia: “Fatto trenta, facciamo trentuno") risponde allo sguardo perplesso con un’occhiata che è un mix di bonario rimprovero e divertita superiorità intellettuale. Spiega che, tra i dedali dorati delle boutique d’alto lignaggio e i corridoi sorvegliati di altre strutture ben meno glamour, insomma le superfici del fast fashion, la differenza è sottile. Nei secondi, l’uscita è strategicamente lontana dall’entrata, per scoraggiare ardite evasioni; nei primi, entrata e uscita coincidono, ma solo dopo che il cliente ha percorso ogni centimetro di spazio disponibile, in un viaggio obbligato e curato nei minimi dettagli. “È un raffinato gioco di flussi e percorsi, studiati per veicolare senza opprimere”. E il Minotauro di questo labirinto? Un terminale Pos, che attende paziente alla fine del viaggio.

Campone spiega come questo “gioco di flussi e percorsi”, studiati per veicolare ma mai opprimere, sia il cuore della rappresentazione della moda contemporanea. “I negozi oggi non sono più solo spazi di vendita. Sono teatri in cui ogni elemento, dalla vetrina all’allestimento interno, fino al più piccolo accessorio, partecipa alla narrazione di una storia. Soprattutto nel lusso, dove si costruisce il sogno. È come se le boutique fossero installazioni, dove ogni dettaglio dialoga con i prodotti, trasformandoli in protagonisti di un racconto che il cliente può toccare, indossare e portare a casa”. Lo si vede chiaramente nel suo lavoro per lo store Uniqlo alla stazione Termini di Roma: un luogo che regala non solo una vista mozzafiato sulle antiche Mura Serviane, ma anche un nuovo modo di vivere la città. “

È un esempio di come il commercio possa elevare i clienti da semplici acquirenti a esploratori urbani”, racconta. Scelta da “Forbes” tra le 100 donne di successo del 2024, di origini calabresi e domiciliata a Roma, Claudia Campone si è laureata alla Sapienza con un master in design, arte e comunicazione visiva. “Un’esperienza interessante”, racconta con un sorriso mezzo ironico, “anche se, non essendo maschio e non progettando palazzi, mi ha lasciato un po’ di quel senso di inadeguatezza che ti accompagna per sempre. Mi hanno fatto sentire una minus habens perché da noi trionfa ancora la figura mitologica dell’architetto vitruviano”. Nonostante questo, il suo percorso è stato brillante. Dopo gli studi in Francia all’École de Design di Nantes e un periodo a Shanghai come interior designer, approda nel 2008 in LVMH, dove, per Fendi, cura atmosfere e interni per boutique internazionali. “Era come dirigere un’opera in palcoscenico”, ricorda: “Ogni negozio doveva rappresentare il DNA del marchio, ma in una chiave che parlasse anche al genius loci del luogo in cui sorgeva”. 


Nel 2015 ha fondato il suo studio. Oggi affronta la sfida più grande: progettare spazi che non siano solo belli, ma anche “narrativi”, come usa dire, cioè in grado di rappresentare il linguaggio sempre più fluido e complesso della moda contemporanea. L’ironia, sottolinea, è uno dei cardini attorno ai quali ruota il processo di progettazione dello studio: la capacità di immaginare qualcosa che ancora non esiste, rendendolo funzionale e pratico, ma al tempo stesso giocoso. Come è cambiata, quindi, la presentazione e la rappresentazione della moda nelle boutique negli anni? “Un tempo il negozio era una vetrina dell’atelier, un’appendice che mostrava i prodotti, certo, ma spesso anche il loro “making of”. Poi l’industrializzazione ha accelerato tutto, creando una distanza sempre maggiore tra il cliente e il creativo che aveva ideato l’oggetto da vendere. Prima si vendeva a un circolo, una tribù, una community, costruendo una narrazione fatta di parole e relazioni.

Quando tutto si è via via spersonalizzato, il luogo stesso ha dovuto iniziare a parlare: il display, l’area espositiva. È qui che si è giocata la partita, soprattutto nei primi anni Duemila, con spazi minimalisti e asettici, come quelli gelidi di Calvin Klein, che oggi hanno ceduto il passo a luoghi più riconoscibili e accoglienti. Ma l’obiettivo rimane la costruzione di una forma di comunicazione autentica”. Campone sottolinea come oggi i grandi marchi investano non solo in immobili, ma anche in marketing, comunicazione e pubblicità degli stessi, che rappresentano estensioni fondamentali del loro messaggio. 
Ma cosa manca ancora per convincere le persone almeno a entrare negli spazi di vendita? “Dopo la pandemia, l’approccio “omnicanale” alla vendita e lo shopping online, sentiamo il desiderio di qualcuno che sappia raccontare cosa c’è dietro un abito o un accessorio, trasformando l'entrata in negozio in un piccolo evento”. E qui si lascia andare a un aneddoto: “A Roma, la store manager di Fendi mi disse, o meglio mi ordinò: “Metti davanti ai camerini una poltrona talmente comoda che vi si possano perdere i sensi. Così, mentre offro champagne a un marito o a un amante, lui si rilassa e non si fa del male quando guarda il cartellino del prezzo, tanto è intontito dall’alcol e dal comfort”.

Negli anni Novanta, l’archistar Rem Koolhaas, autore degli Epicentri Prada, definiva lo shopping come “ultima forma di attività pubblica” nel suo manuale “The Harvard Design School Guide to Shopping”. È un’idea valida ancora oggi? “Per me sì. Manca ancora una dimensione umana che serva da paradigma per una relazione personale tra cliente e venditore. Se devo fare una previsione, credo che in futuro avranno più successo i multimarca di dimensioni non enormi, dove il titolare possa fare una selezione precisa delle firme da mostrare. Inoltre, ritengo fondamentale includere opere d’arte, fotografie ed elementi estranei alla moda, perché le collaborazioni interdisciplinari sono un modo efficace per rinnovarsi. Creano luoghi che non obbligano il cliente a prendere decisioni immediate, liberandolo da quella pressione che spesso rende l’esperienza di acquisto alienante”. Pullover blu, lunghi capelli castani lasciati sciolti, nessun gioiello: un look raro nella capitale. Insistiamo: basta un commesso (“un addetto alle vendite, casomai”) ben informato a riempire gli spazi della moda? “Certo che no. Ci sono delle regole imprescindibili”, risponde. “La sequenza degli oggetti sulle scaffalature, l’organizzazione di ogni singola stanza, l’orientamento: tutto va progettato. Ovviamente, i bestseller vanno posizionati ad altezza occhi, mentre i prodotti più economici in basso. Le scarpe, invece, possono tranquillamente stare a un piano superiore: è un prodotto per cui ogni donna accetta di fare la fatica di salire una o due rampe di scale.

Diverso il discorso per l’abbigliamento maschile che, ahimè, finisce sempre confinato nei sotterranei. Ma queste sono soluzioni basilari, un vademecum d’uso mentale che tutti noi del settore usiamo, come sapere che l’istinto di tutti è di girare a destra appena entriamo. Il suo approccio si basa su un principio chiave: la progettazione di uno spazio deve sempre superare il ciclo delle collezioni. “Quando ho lavorato per Etro, in quel periodo lanciavano una collezione ispirata ai temi marini, tutta giocata sugli azzurri e i blu. Ma poi? È fondamentale scegliere una palette neutra, ma non anonima, che incornici il prodotto e resista al susseguirsi delle tendenze”. Il suo sguardo si sposta poi sulla strategia a lungo termine: “Non si tratta solo di estetica, ma di costruire qualcosa che duri, che sia flessibile e universale”. E come la mettiamo con la mutevolezza delle tendenze dell’abbigliamento, sempre più repentine? “Bisogna scegliere una palette neutra ma non neutrale che incornici il prodotto, ma resista al susseguirsi delle tendenze”.


Ma i suoi negozi, come Uniqlo, sono strettamente legati al territorio: “Sicuro. E’ uno spazio incastonato in un ambiente familiare in senso gainsbourghiano, dove si va in tanti momenti e stagioni della nostra vita: racconta della stratificazioni di Roma, abbiamo fatte realizzare un’illustrazione con il palinsesto delle architetture cittadine nel corso del tempo. E poi è aperto a tutti, è più democratico rispetto, per esempio, a quello di Dior che ho strutturato in piazza di Spagna…”. Ma perché le boutique ideate dalle archistar sono sempre frustranti ed escludenti? “Perché le archistar non parlano abbastanza con noi designer d’interni. Mi sono trovata benissimo con Gwenael Nicolas, fondatore dello studio Curiosity, che mi ha insegnato come non si debba mirare alla ricerca della bellezza superficiale e un attento studio della funzionalità, ma è altrettanto importante l’interazione con un luogo, quando vi accade qualcosa di inatteso e lo trasforma in un palcoscenico pieno di sorprese: ma, per l’appunto, Gwenael è un designer, non un architetto”. Va bene, ma ci saranno alcune maison che hanno scelto degli architetti giusti...

“Dolce & Gabbana. Hanno scelto nomi famosi in ogni città dove sono presenti, lavorando molto sul concetto di genius loci unito al dna della maison con un giusto equilibrio tra innovazione e origine, che aiuta sia a mantenere i clienti fedeli che ad attrarre clienti occasionali”. Il genius loci avrà sicuramente la sua importanza, ma il cosiddetto take over delle griffe d’eccezione di hotel che sono sinonimi di località mitiche? «In questo momento ci concentriamo molto sull’esperienza, i piccoli show, le vendite private, le piccole case che abbiamo costruito al Timeo a Taormina che era in diretto collegamento con il paesaggio… Ci si sposta sempre più dal prodotto al lifestyle: una sua collega si è scandalizzata per il mio intervento sui Bagni Fiore a Paraggi, riempita di sdraio in Toile de Jouy per Dior… Ma sono tutte iniziative non solo reversibili, ma che talvolta riaccendono l’attenzione su un marchio specifico”. Beh, in effetti sono operazioni un po’ forzate, non crede? “Per dirla con Umberto Eco, io sono integrata, non apocalittica. Quando Gucci, sotto la direzione di Alessandro Michele, aveva chiesto di poter sfilare al Partenone, molti si sono schierati entusiasti per il rifiuto del governo. Non sono d’accordo sulla sacralità di determinate zone: sono situazioni che anzi, potrebbero essere fonte di nuove alleanze”.

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