Un ritratto di Satoshi Kuwata (courtesy del designer) e un modello della collezione autunno-inverno 2026 che si presenta oggi alla Biblioteca Centrale di Firenze 

Il foglio della moda

Murakami in passerella

Gianluca Cantaro

“Oggi chi entra ancora in una biblioteca? Eppure, per la mia moda tutto ha avuto inizio fra scaffali pieni di libri”, dice Satoshi Kuwata, neo-quarantenne, designer ospite di Pitti, che ha scelto di sfilare alla Nazionale di Firenze, attutendo il rumore dei passi dei modelli e degli ospiti con i tatami: “È ora di tornare all’essenzialità”

Alla fine di dicembre, quando ancora non sapevo che uno dei libri del mio autore preferito sarebbe stato compagno di detenzione degli ultimi giorni di prigionia di Cecilia Sala, ma questo me la rende più vicina anche se non la conosco e ho solo sperato per lei tutto il bene possibile, ho finito di leggere l’ultimo romanzo di Murakami Haruki “La città e le sue mura incerte”, nel quale la biblioteca è un elemento cruciale del racconto.

 

Lo scrittore giapponese, il Paese dove trascorro più tempo dopo l’Italia, la rende sia magica sia reale: un luogo del cuore e della mente che può custodire sogni che si svelano sottovoce o libri da divorare incollati alle pagine, immobili. È un luogo in cui non c’è posto per la fretta, dove la prima regola è il silenzio, la seconda l’ordine, la terza la compostezza. Questo stesso tema ricorre mentre esploro la genesi e la realizzazione della presentazione della nuova collezione di Satoshi Kuwata, giapponese, fondatore e direttore creativo di Setchu (il termine significa “compromesso”) nato nel 2020 a Milano, che è ospite dell’edizione 107 di Pitti Immagine Uomo in corso in questi giorni. Sfilerà, anzi, oggi. “È la mia prima sfilata ed è tutt’altro che convenzionale; direi più una riflessione personale sul mostrare”, racconta. “Ho scelto la Biblioteca Nazionale Centrale per il legame profondo con la memoria e la cultura: un luogo simbolico che invita a tornare all’essenziale”, spiega. “Oggi chi entra ancora in una biblioteca? Eppure, è lì che per me tutto ha avuto inizio, da studente alla Central Saint Martins, passavo le giornate tra le pagine dei libri, inebriato dall’odore dell’inchiostro e immerso nell’estetica di fotografi come Sarah Moon. Ai tempi erano anche l’unica fonte di informazione insieme con i giornali e qualche sfilata che passava in televisione”. Per Kuwata, lo show non è esclusivamente esibizione, ma una narrazione. “Voglio che il pubblico percepisca il movimento e la trasformazione dei capi. Non sarà una semplice sfilata, ma una presentazione articolata per far vivere l’esperienza in quello spazio: la disposizione dei tatami, l’interazione con pavimento e con l’architettura. Ogni dettaglio enfatizza l’idea di una riconoscenza verso i capi, il pubblico e il contesto”, prosegue. “Ho deciso di limitare il design degli abiti, preferendo la ripetizione e un format che richiama le presentazioni degli anni Quaranta e Cinquanta, quando ancora non esisteva il vero prêt-à-porter e ogni look veniva scoperto attraverso un foglio con le descrizioni. Saranno movimenti semplici per mostrare l’evoluzione dei capi, ma senza l’intervento mio o di terzi, la pura semplicità del gesto. Il fine è un’esperienza più intima, rilassata, diversa dalla frenesia degli eventi di moda tradizionali. A Pitti, dove tutto è più concentrato, propongo un momento di pausa, un’occasione per godersi qualche ora in un luogo unico, dove la passerella è solo un elemento in un’esperienza più ampia”. Un altro motivo per cui ha scelto la Biblioteca Nazionale insiste su come la sostanza sia più importante dell’apparenza. “La location non è casuale: è un invito a ritrovare il piacere dello studio e della scoperta, lontano dalle distrazioni dei social. È un modo per tornare al valore autentico della moda come forma di espressione e non come mero contenuto digitale”, spiega. Così gli chiedo se anche lui percepisce un grande scollamento concettuale tra chi produce vestiti e chi li deve comprare, uno dei motivi della profonda crisi del settore di oggi: “Sta cambiando radicalmente e con esso anche il suo scopo. Io, per esempio, non sento più il bisogno di fare una sfilata tradizionale: è diventata un mezzo per aumentare i follower, più che un vero esercizio creativo. Inoltre, i costi di produzione, dai materiali alle lavorazioni, sono sempre più alti, rendendo impossibili le idee più audaci. Preferisco minimizzare certe attività e concentrarmi sull’essenziale, piuttosto che compromettere la qualità o inseguire un sogno irrealizzabile. Un tempo, l’entusiasmo nasceva dal passaparola. Chi non poteva vedere i capi subito si emozionava ancora di più al momento di scoprirli. Oggi, invece, l’esperienza è immediata, spesso superficiale”, sottolinea. Kuwata, nato a Kyoto nel 1983, l’ha lasciata all’età di ventuno anni; da allora la sua formazione professionale è stata prettamente occidentale: Londra, New York, Parigi e infine Milano. Il suo Dna resta però indubbiamente giapponese.

 

Ma come bilancia due culture così diverse nel modo di presentare? “Così come tu ami la mia terra, io amo la tua. Non molti lo sanno, ma prima di trasferirmi a Londra sognavo l’Italia, Napoli o Milano, però non avevo mai viaggiato all’estero e la barriera linguistica mi frenava. Così scelsi Londra per l’inglese e la sartoria. Oggi, dopo vent’anni di carriera, alla fine ci sono. Qui ho imparato il valore di concedersi i propri spazi. A differenza delle grandi città dove ho vissuto, ho scoperto che l’agio, inteso come equilibrio tra vita e professione, è il vero lusso”, Racconta con entusiasmo. “Il mio lavoro è nel fashion design occidentale, dato che mi sono formato a Savile Row a Londra e con la haute couture francese, non nel veicolare esclusivamente la cultura giapponese, quindi parto da qui sia per progettare sia per presentare. Faccio come in cucina: pensa a un’insalata perfetta, a cui aggiungo un pizzico di Giappone rappresentato da sale, pepe e l’olio. L’obiettivo? Mai farla troppo condita”.

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