L'uomo della restaurazione modaiola (e politica)
Camoscio, cashmere, pellicce (finte, ma anche vere), silhouette che guardano all'età d'oro dell'eleganza maschile, collaborazioni fra designer. Dalle sfilate di Milano per l'inverno 2025, molte indicazioni utili anche per chi non vende abiti
EMPORIO ARMANI
EMPORIO ARMANI
JORDANLUCA
Federico Cina
Giorgio Armani
John Turturro per ZEGNA
KB Hong
Lorenzo Viotti, Brunello Cucinelli
TODS
Prada
Prada
Mordecai
Bisogna davvero chiamarsi Miuccia Prada, avere la sua potenza mediatica e godere dello stesso assoluto rispetto intellettuale pubblico e condiviso, per fare quello che ha fatto lei domenica, e cioè portare in passerella quelli che dichiaratamente sono pelli di montone ma in effetti hanno un pelo davvero lungo e non sembrano neanche nuovi, usarli come colli di cappotto e di gilet su stivali da cowboy colorati e far scoppiare l’applauso fra i molti sostenitori della linea chisseneimporta-se-la-pelliccia-finta-inquina-come-un-pozzo-di-petrolio (dal quale peraltro deriva)-purché-non-si-tocchino-gli-animali. Al di là dell’evidenza che i cappotti col collo di pelliccia, vera come in questo caso o a imitazione di, sono la grande tendenza di queste sfilate autunno-inverno 2025-2026 insieme appunto con il gilet, il velluto rasato ma anche lavorato effetto cavalry e la cravatta portata come una sciarpa, à la Théodore Chalamet, la verità è che l’Occidente - e in particolare l’Occidente boomer, perché i ventenni delle ubbie di trent’anni di lotta alle pellicce se ne infischiano abbastanza e gli asiatici hanno sempre preso i manifestanti a bastonate - ha gli armadi traboccanti delle cappe della mamma, del visone-sulla-pelle della nonna, qualcuno perfino e ahinoi di vietatissimi animali maculati di zie e prozie, ormai incartapecoriti, come scrivevamo qualche sabato fa sul Foglio, che fa male al cuore lasciar marcire, o divorare dagli insetti. È un gesto potente, che la sacerdotessa dell’intellighèntsia modaiola, pur portando in passerella montoni che assomigliano moltissimo a marmotte, suggerisca l’idea di recuperare le spoglie di una battaglia comunque persa, e che farlo sia un gesto di compassione, etico e certamente sostenibile, almeno alle nostre latitudini e nel nostro micro-habitat socio-culturale perché vallo a dire ai rapper afroamericani che, lo scrivevamo sempre qualche tempo fa, si fanno fotografare con cappotti di lupo lunghi fino ai piedi, di optare per il pelo finto, bro.
Nella grande piramide del woke c’è sempre qualcuno che sta più in alto di te. Non è detto che questo inatteso via libera, che spazza decenni di ipocrisie e di distinguo e che ieri, in una Fondazione Prada allestita con un reticolo a più piani di tubi innocenti, faceva aguzzare gli occhi agli ospiti della sfilata e mormorare commenti atterriti (“oddìo, ma è vera?”) e grotteschi (“io dico lo stesso che è finta”), porterà le folle nelle poche pelliccerie rimaste per procedere alla trasformazione e al recupero di quelli che saranno certamente distese di pelli ereditarie. Certo è che, tranne rari casi, nella moda in crisi e di cui sono prova anche queste prime sfilate milanesi così poco numerose, così spesso trasformate in presentazioni, quadri viventi, balletti, intrattenimento, collaborazioni (per chi produce casualwear, come Woolrich, affiancarsi a un designer di fama come Todd Snyder è un modo per distinguersi e rendersi memorabili, problema di tutti) tira una grande aria di restaurazione e un nuovo, ampio uso degli aggettivi inclusi nel campo semantico afferente al lusso dei tempi andati. Nessuno sa produrre lusso meglio di Zegna e del suo pifferaio magico, Alessandro Sartori, che ha raccontato il processo creativo di quei mohair, delle lane superfini che già il fondatore Ermenegildo Zegna sfidava gli allevatori a ottenere, istituendo il Wool Trophy Award e del “modo di essere italiani” della maison, in maniera così suadente che consiglierei all’attuale presidente Gildo Zegna di equipaggiare i clienti di una guida vocale come nelle grandi mostre: il risultato sarebbe stupefacente. “C'è qualcosa di tipicamente torinese in questa collezione, nell'atteggiamento colto che le forme suggeriscono e nel modo noncurante in cui vengono indossate, che è una maniera peculiare di essere italiani”, diceva appunto Sartori presentando in anteprima la collezione dai volumi avvolgenti, le proporzioni ripensate, con macro-pattern e macro-motivi donegal, selezionati dalla biblioteca della tradizione, i blazer destrutturati con chiusure basse a due bottoni; cappotti oversize con colli in pelliccia di cashmere lunghi fino al ginocchio.
Nella sofisticata collezione Giorgio Armani, anche qui volumi avvolgenti e morbidi pantaloni in velluto verde cupo, ma soprattutto nella collezione Emporio, oggettivamente memorabile, Giorgio Armani ha parlato di “appropriatezza e disinvoltura”, e ha proposto silhouettes di proporzioni decise, che non avrebbero stonato negli anni Trenta, suo decennio-feticcio, ma soprattutto tessuti ricchi, garzati, tamponati, mantelli di tessuto a pelo lungo e una palette che spazia dal tabacco al rosso bordeaux. E’ stata la stessa scelta compiuta da Brunello Cucinelli, il primo a dichiarare che sì, anche i clienti ricchi, acculturati e usi alla materia finanziaria, insomma i pochi “che sanno leggere i bilanci”, si sono davvero stancati di farsi prendere per il naso da gente che, non sapendo come soddisfare la fame degli investitori e tacitare gli analisti, non ha trovato di meglio che alzare ogni anno i prezzi. Anche da Cucinelli gli ormai celebri velluti rasati di seta dai riflessi metallici e luminosi, declinati anche al femminile, ma in particolare il montgomery in cashmere, morbidissimo, altro grande ritorno nello stile maschile per il prossimo anno. E’ il modello che hanno fatto tutti, i giovani stilisti come Gianluca Isaia, alla sua prima sfilata milanese co-ed al Circolo Filologico, in passerella anche tailleur pantalone da donna in principe di Galles, che ormai vive per lunghi mesi all’anno negli Stati Uniti ed è stato finora l’unico a trovare il coraggio di dire che dall’elezione di Donald Trump le cose si stiano rimettendo al bello (i valori che la moda ostenta sono contrari a quelli del nuovo presidente, come si vide già nel 2017, ma par di capire che le difficoltà stiano portando la compagine internazionale a più miti consigli) e che no, i dazi minacciati gli sembrino soprattutto una trovata elettorale.
Ai piedi di tutti, da Armani a Zegna a Tod’s e Doucal’s, mocassini morbidi e stivaletti dalla suola spessa, di gomma. Il carrarmato che ben si accompagna ai cappotti con la cintura, modello Armata Russa (e sì, duole dirlo, ma il modello letterario ed effettivo del “sarto russo ebreo” ha insegnato a tagliare cappotti a tutti da oltre un secolo). Fra i giovani, soi disant o effettivi, è davvero commovente la cura del dettaglio (Mordecai, il brand fondato dall’ex creativo di Moncler Ludovico Bruno, ragazzo di ottime letture e migliore educazione che ha messo in scena la migrazione dei popoli sulle note del “Sacre du printemps” con una collezione di casualwear davvero interessante per volumi e morbidezza cromatica), nell’ispirazione (una per tutte la mise en scène di Federico Cina alla Fondazione Sozzani, ispirata alla storia dei suoi nonni), nello sforzo di coniugare mondi diversi attorno alla comune passione per i tessuti di alta qualità, (HB Hong, il brand del colosso cinese K-Boxing che si serve da Loro Piana, disegnato da un ex creativo della storica compagine di Gianfranco Ferré, Massimo Foroni, e un giorno o l’altro bisognerà parlare di tutti i bravi designer italiani che per mantenere le loro linee, o anche per mantenersi e basta, lavorano in Cina).
Fatti salvi nomi come Simon Cracker o Jordan Bowen e Luca Marchetto, al secolo Jordanluca, che hanno proposto una rilettura del loro consueto stile english-street, comune a Londra dagli Anni Ottanta ma nuovissimo per l’ultima generazione e poi hanno tenuto seduti tutti gli ospiti per assistere alla loro unione a sorpresa e a favore di telecamere (cari ragazzi, felice per voi, però suvvia, il matrimonio è un atto pubblico ma anche un fatto privato, da condividere con i propri cari, la “fashion community” è un’entità astratta) la moda maschile italiana è tornata a quello che nel mass marketing si chiama il value for money. Chiedete a qualunque buyer, dalla presidente dell’associazione Maura Basili a Federico Giglio, al direttore comunicazione di Camera Showroom Mauro Galligari di Studio Zeta e Mario Dell’Oglio e tutti vi diranno che vanno montando le proteste per la moltiplicazione del costo degli accessori griffati, gli stessi, un semestre dopo l’altro, che la marginalità per chi vende si è assottigliata a livelli inimmaginabili (, rendendo anche poco interessante fare affari con certi brand, e che insomma le boutique stanno correndo ai ripari con soluzioni drastiche delle quali si vedranno gli effetti a breve.
Il foglio della moda
La nostra esistenza inconsapevole, e anche felicemente museale, sotto una teca
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