Copricapi che parlano

La sfida di Melania Trump al protocollo. Cappelli che si fanno simboli di potere e trasgressione

Fabiana Giacomotti

Dalla tesa rigida di quel “boater” (in francese “canotier”, “gondoliere” in italiano) spuntava un sorriso quando proprio non poteva farne a meno. Storie di donne e copricapi

Per essere l’abbigliamento un “tema risibile”, come ti scrivono quelli che non hanno studiato antropologia, ma nemmeno storia, sociologia, economia, insomma quelli che in genere non hanno studiato niente ma vanno in crisi quando devono partecipare alla prima serata mediamente importante della loro vita e non sanno che cosa indossare per non fare la brutta figura che poi in genere fanno, bisogna dire che il cappello di Melania Trump alla cerimonia di giuramento del marito a quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti tiene banco da una settimana. A dimostrazione che non si tratti di un “cappellino”, come minimizzano sempre i saputi per marcare la loro superiorità intellettuale, di solito certificata dalla forfora sul bavero, ma di un accessorio di straordinaria rilevanza politica e simbolica. Sulla tesa rigida, abbassata, di quel “boater” (in francese “canotier”, in italiano “gondoliere”), dal quale spuntavano due mascellone aguzze e una bocca stiracchiata in un sorriso quando proprio non poteva farne a meno, si sono consumate più pagine e pubblicati più meme di quanti ne siano state riservati al braccio teso di Elon Musk e a ben vedere a tutta la cerimonia, che fra tette esposte, shampoo non fatti e selfie tra un ingresso e l’altro, è stata senza dubbio la più stracciona e irrituale che si sia mai vista a memoria d’uomo. 


Immagino il conforto dell’elettorato trumpiano di base alla vista del maglione rosso della madre del vicepresidente J.D. Vance, che neanche per questa occasione ha ritenuto necessario infilarsi un vestito e darsi una pettinata, elegia americana, ma ho avuto modo di verificare che anche nel Paese della Costituzione più bella del mondo non siamo messi benissimo se ignoriamo perfino quel minimo di bon ton istituzionale che ci dovrebbe far alzare il sopracciglio davanti al cappello di Melania e non, come leggo da ogni parte, inneggiare al “gesto di ribellione” plasticamente rappresentato dalla tesa rigida che ha impedito a the Donald di stamparle un bacio davanti alle telecamere, lui lì con la bocca protesa e l’ala rigida del canotier in mezzo, una cosa grottesca à la Oliver Sacks, “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”. Quello che nessuno vuole dirsi, o riconoscere, è invece una verità banale, ed è che se il marito che hai sposato vent’anni fa non ti sta bene, se le sue politiche sociali ti fanno orrore come in effetti dovrebbero, puoi sempre fare appello all’istituto del divorzio o ritirarti in convento come Maria d’Ungheria o Eleonora d’Aquitania dopo aver visto i figli darsi battaglia per il potere e averne seppelliti otto. Altrimenti, come dicono a Roma, devi stacce. E starci prevede che ti adegui al cerimoniale, che nel tuo caso significa mostrare il volto sorridente e incorniciato da una toque, o un cappellino sulle ventitre, o un’acconciatura poggiata sul capo; non nasconderlo con una tesa bassa e larga come Clint Eastwood prima della sparatoria. 

    

   
Se la tua protesta si riduce a questo, al mascellone teso, francamente, che pena: almeno la regina Margherita si faceva regalare i fili di perle, una montagna, da maharaja, e poi andava a trovare il suo amante nella stessa villa dove l’altr’anno hanno girato “House of Gucci”. Che poi il cappello serva per lanciare messaggi, siamo tutti d’accordo e questo articolo è scritto apposta per raccontare quali e quanti, ma ci sono esempi di messaggistica più efficace ed educata del boater di Melania anche senza andare a scomodare la migliore interprete del genere lungo un arco di sette decenni, e cioè Elisabetta II con quella miriade di copricapi ton sur ton dai quali i media e la gente cercavano di trarre indicazioni e vaticini, specialmente in quella giornata del 2017 quando si presentò all’apertura dei primi lavori del parlamento post Brexit indossando un grande cappello color blu guado ricoperto di fiori con il pistillo giallo e il “Guardian” lanciò un sondaggio: si trattava di un messaggio in codice o solo di un cappello instagrammabile? Fatti salvi quelli che ritengono il cappello un accessorio erotico perché hanno letto il passaggio finale dei “Morti” di James Joyce e ancora ascoltano Joe Cocker nella migliore interpretazione di “You can leave your hat on”, colonna sonora di “Nove settimane e mezzo” nonché esempio perfetto di che cosa possa scatenare nell’immaginario comune un cappello ben piazzato in un film ridicolo (nel 2013 l’autore del brano, il mitico Randy Newman, raccontò al “Financial Times” di averla scritta nei primi Anni Settanta immaginando “a fairly weak fellow”, uno sfigato, che sogna di vedere una certa ragazza ai suoi piedi, e che perciò l’aveva musicata come una ballata, una nenia tenera e malinconica e che era stata la voce ruvida di Cocker, i coretti in acuto “e tutte quelle trombe” a caricarla di tensione sessuale), il cappello è uno strumento di potere e uno sfoggio di ricchezza dal giorno uno della sua storia

  

Per vedere le donne indossare un copricapo che non le nasconda ma le faccia apparire più carine e più imponenti bisogna aspettare il ’300

  
Dunque, e per diretta conseguenza, le donne che pure si coprono il capo da tempi biblici (“ti prego…vela il tuo capo, rivesti l’armatura del pudore, innalza un muro sul tuo sesso” le esorta Tertulliano ancora nel 200 dopo Cristo), portano il cappello da tempi molto più recenti. Per vederle indossare un copricapo che non le nasconda ma le faccia apparire più carine e più imponenti, uno “statement hat” come si dice nell’ambiente e come ci si è sprecati a dire per Melania, bisogna aspettare il Milletrecento, con il famoso hennin a una o due punte, sormontato da un velo, che tutte le bambine conoscono perché lo portano le fate e le regine raffigurate nei libri delle favole. Bene o male lo abbiamo avuto tutte, di cartone rosa o blu, sfoggiandolo orgogliose e felici a Carnevale col velo di tulle sintetico e l’elastico sotto il mento per tenerlo fermo, salvo scoprire che schifezza fosse qualche anno dopo davanti al Cassone Adimari alle Gallerie dell’Accademia, con quella sfilata di donne slanciate e bellissime avvolte nei manti di velluto e il doppio hennin carico di pietre preziose portato alto sulla fronte rasata.

  
Per farla breve e perché devo parlare d’altro, ma un minimo di storia è sempre utile, nel Cinquecento arriva la capigliera inventata da Isabella d’Este, con grande uso di posticci, e via via veli e velette, pizzi e pettinoni, cuffiette e ricci come nella “Fontange” (le pettinature prendono di solito il nome dalle loro inventrici, nel caso la famosa duchessa amante di Luigi XIV), fino ai tricorni grandi e piccoli che lo stesso Luigi affittava a chi voleva visitare Versailles, un po’ sul modello dei ristoranti dove non entri senza cravatta e il maître te ne passa discretamente una, e quindi ai grandi cappelli carichi di piume posati sulle parrucche dal 1780 in poi, specialità inglese come testimoniano il famoso dipinto di Thomas Gainsbourough e anche i ritratti di quella nobildonna molto battagliera che è stata Georgiana Spencer, duchessa di Devonshire, la bisavola di Lady Diana. 

    

I pouf, non proprio cappelli ma parrucche sormontate da o in sostituzione di, e lì i messaggi che mandavano si sprecavano

   
In mezzo, ma anche in contemporanea, c’erano stati i pouf, non proprio cappelli ma parrucche sormontate da o in sostituzione di, e lì i messaggi si sprecavano, altro che quella povera aluccia rigida della quale il suo autore, tale Eric Javits, ha postato il video della manifattura, un procedimento banalissimo che alla Borsalino di Alessandria ripetono centinaia di volte al giorno ma per la quale i simpatizzanti hanno gridato al miracolo. Visto lo scarso margine di manovra politica e sociale femminile ancora oggi, ma all’epoca neanche preso in considerazione, i pouf posticci servivano a un’infinità di cose, e per questo le loro proprietarie (e per un certo periodo anche i proprietari), si sottoponevano a lunghissime sedute di disposizione e fissaggio degli stessi, disponevano sul corpo piccole trappole per catturare pidocchi e pulci che, inevitabilmente, li infestavano, e pagavano comunque queste favolose costruzioni un occhio della testa. Oltre al modello “à la bonne maman” ideato dal parrucchiere Beaulard, che era provvisto di una leva nascosta in grado di abbassarlo quando chi lo indossava si trovava in compagnia di persone che non avrebbero gradito la vista di un catafalco alto oltre mezzo metro, le cronache riportano con molto rispetto l’impressione che fece il pouf “di circostanza”, lanciato per la morte di Luigi XV, munito sul lato sinistro di un velo nero e su quello destro di un covone sopra una cornucopia carica di frutta, il celebre modello “au sentiment” della duchessa di Chartres, che aveva al centro un ritratto del figlio in braccio alla nutrice, quello del suo valletto preferito e due sacchetti ricamati con le ciocche dei capelli del marito e del suocero e naturalmente, riprodotto con qualche fatica e molto impegno anche in un paio di sfilate recenti e nel thriller cinematografico “Medusa deluxe” di Thomas Hardiman, il pouf più politico di tutti, “La belle poule”, ricci a mo’ di onde e un modellino di nave sopra, con vele e sartiame e tutto, in onore della celebre fregata che nel 1778 sbaraglio la HMS Arethusa inglese al largo delle coste francesi ingaggiando definitivamente il regno di Luigi XVI nella Guerra d’Indipendenza, peccato che nell’entourage di Melania nessuno sia stato in grado di raccontaglielo perché quella della belle poule, o bella gallina, sarebbe stata una storia notevole da inalberare, meno modesta della faccenda del gondoliere comunque, e più interessante del vestito di Hervé Pierre Braillard con cui è apparsa ai tre balli inaugurali, che di certo non è orribile come hanno scritto, ma che è proprio il genere di vestito scelto da quelle che vogliono sembrare sofisticate, il mondo è pieno di designer così e tutti disegnano quei vestiti rigidi e senza grazia. 

    

Il “cappellino”, che è ormai sinonimo di quella che un tempo era l’acconciatura e il cui uso si è perso col Dopoguerra e la “rivoluzione giovane”

  
Per venire ai giorni nostri o quasi e saltando a piè pari tutto l’Ottocento che guai a uscire senza cuffietta, solo le contadine e infatti c’è una letteratura ampissima a testimoniare che erano indicate per sineddoche, come le donne che “portavano il foulard” e cioè non il cappello come le borghesi, si può arrivare alla vera annotazione interessante, e cioè che se mai vi è stata un’inversione di genere naturale nella moda, la dobbiamo al cappello: il “fedora” prediletto da Humphrey Bogart e dai ventenni di oggi venne creato per Sarah Bernhardt nel dramma omonimo, così come tutto l’abbigliamento western, dai jeans allo Stetson, che non ha genere o quasi. Anche perché cappello o “cappellino”, che è ormai sinonimo di quella che un tempo era l’acconciatura e il cui uso si è perso dopo il Dopoguerra e la “rivoluzione giovane”, non sono la stessa cosa, non hanno la stessa funzione e non rispondono alle stesse regole. Forse per questo, tantissimi non hanno capito che la violazione del protocollo da parte di Melania è stata un fatto piuttosto grave, oltre che una battaglia di retroguardia, e che un abito è un gesto politico, di apparatus come dicevano i romani dell’impero che tanto piacciono a Elon Musk, e non solo personale. In una serie di dichiarazioni rilasciate anche al “Foglio” in occasione dei vent’anni della linea Privé, che sfilerà a Parigi fra pochi giorni in un tripudio di celebrazioni, Giorgio Armani sottolinea l’aspetto al tempo stesso ludico, sognante ma al tempo stesso pratico di certe creazioni “rivolte a una clientela vera, dalla vita certamente privilegiata”, ma le cui “occasioni e impegni richiedono un particolare modo di vestire”. Lui è l’ultimo, o fra gli ultimissimi, che accompagni le sue mise con piccole toque, che raccolga i capelli delle modelle in passerella, che le renda sensuali e misteriose, senza però nasconderne mai il viso.