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Congiunture inattese

I dazi di Trump sulla moda stanno danneggiando solo le imprese statunitensi

Giorgia Motta

Da Calvin Klein a Tommy Hilfiger, fino a Canada Goose e Steve Madden. I piani del tycoon si stanno rivelando un boomerang innanzitutto per i brand americani, specialmente per la quantità di beni che provengono da Cina, Messico e Canada

Andare a “fare ricerca a Parigi e anche nelle altre capitali europee”, come dice la top buyer Carla Biffi, incontrata in aereo pochi giorni fa, rischia di diventare, più che un piacere e un po’ un dovere se non si vuole continuare a proporre ai propri clienti le stesse cose, peraltro a prezzi maggiorati del 30 per cento, una necessità assoluta per smarcarsi dalla guerra dei dazi in corso, promossa dal presidente Usa Donald Trump e argomento totalizzante del momento nella moda. Sebbene due giorni fa, all’apertura del quarantesimo salone del tessile d’eccellenza, Milano Unica, celebrato da un record assoluto di adesioni (723) e un aumento della superficie espositiva (+12 per cento rispetto all’edizione di gennaio 2024), la compagine politica presente sia sembrata attendista (il titolare del dicastero delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, in modalità mental coach, ha mandato un “messaggio motivazionale”), e il presidente di Milano Unica, Simone Canclini, abbia posto l’accento sulla qualità incomparabile dei tessuti nazionali come se fosse l’unico baluardo possibile contro una guerra commerciale, è chiaro che mettere ulteriormente in difficoltà aziende già provate dalla crisi e dal brusco calo degli ordini rischi di impattare in maniera pesantissima sul sistema e la relativa occupazione.

Lo scorso novembre, Prometeia aveva ipotizzato il danno economico per le imprese italiane se, dopo l’insediamento, le minacce di Trump si fossero rivelate più consistenti di una promessa elettorale, e come in effetti stanno dimostrando di essere. Gli scenari proposti dalla società di analisi erano due: un aumento di dieci punti percentuali limitato a quei prodotti che già oggi sono sottoposti a dazi e nessuna tassa per quelli che sono invece esenti, mentre il secondo ipotizzava un aumento tariffario generalizzato di dieci punti per tutti i prodotti importati dagli Stati Uniti. Nel caso di aumenti limitati ai prodotti già colpiti, il sistema moda, attualmente e insieme con l’agroalimentare uno dei più esposti nell’ambito del made in Italy, avrebbe pagato lo scotto maggiore, dovendo fare fronte a oltre un miliardo di dollari di dazi, cioè trecento milioni in più rispetto ai circa 700 milioni di dollari già previsti.

A questo proposito, e mentre il ministro Adolfo Urso annunciava lo stanziamento da parte del Mimit di 200 milioni di euro per i contratti di sviluppo e i mini contratti di sviluppo contenuti nel primo ddl per le Piccole e medie imprese, oltre a 30,5 milioni di euro per investimenti nelle fibre tessili naturali e di riciclo, nell’ambito della transizione green delle imprese, e 15 milioni di euro per la transizione digitale delle pmi, si sono levate voci così numerose da rendere evidente quanto l’andamento del sistema moda italiano segua dinamiche diverse. Se per Confindustria Moda Accessori, già nel 2023 l’export dei prodotti negli Usa erano calate del 4 per cento circa, con segni positivi solo per la pelletteria e la pellicceria e nei primi nove mesi del 2024 la flessione si era mantenuta sul 3,8 per cento, con una sostanziale tenuta della sola pelletteria, per la conceria di alta qualità, che ha appena chiuso la due giorni di presentazioni di Lineapelle a New York, il mercato e le contrattazioni si sono dimostrate invece piuttosto positive.

“Per noi gli Stati Uniti rappresentano un mercato di sbocco importante, ma soprattutto per l’arredo, meno per la pelle destinata alle calzature”, puntualizza l’amministratore delegato di Lineapelle, Fulvia Bacchi, più attendista. I piani di Trump si stanno rivelando però un boomerang innanzitutto per le imprese statunitensi. Se da una parte il presidente Usa ha introdotto una tariffa del 10 per cento sulle importazioni dalla Cina, una misura che mira a rendere inefficace la scappatoia commerciale “de minimis” che ha consentito l’esenzione da dazi doganali sugli ordini dal valore commerciale inferiore a 800 dollari, favorendo il successo delle piattaforme come Shein e Temu, il governo di Xi Jinping ha inserito di rimando Pvh, il gruppo a cui fanno capo Calvin Klein e Tommy Hilfiger, nella lista delle “entità inaffidabili” dopo che le due società avrebbero adottato quelle che la Cina ha definito “misure discriminatorie contro le imprese cinesi” e “danneggiato” i legittimi diritti e interessi delle aziende del Paese. E altri danni stanno colpendo brand americani amati anche in Italia come Canada Goose e Steve Madden.

Secondo uno studio di Ups pubblicato da “BoF”, alcuni marchi americani, compreso Boot Barn, sarebbero più esposti di altri ai dazi “in base alla quantità di beni che provengono da Cina, Messico e Canada”. Non a caso, le azioni della catena, che dovrebbe subire un aumento dei costi del 9 per cento, lo scorso lunedì hanno perso a Wall Street circa il 10 per cento, una delle peggiori performance del comparto.

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