Sfilata della collezione Schiaparelli Fall/Winter 2024-2025 alla Settimana della moda di Parigi (foto Vianney Le Caer per AP, via LaPresse)

Il Foglio della moda

La grande rivalutazione della moda

Sorpresa: dalla Francia all’Italia, venerabili istituzioni come il Louvre e Palazzo Corsini, sede dei Lincei, si accorgono del valore mediatico e, incredibilmente, scientifico, di un modello e di un sistema che fino a questo momento a malapena tolleravano. Ma i tempi cambiano, e il consenso popolare è diventato una necessità 

Visto che al giorno d’oggi (in “questo momento storico” dicono i banalizzatori lessicali) non si può commentare o criticare alcunché senza essere qualificati sui social come #hater e che il nostro mondo è tornato in bianco e nero, qualunque espressione di vita si ama o si odia e nel secondo caso si subiscono le invettive dei #supporter della prima, tanto che sul cappello di Melania Trump alla cerimonia del giuramento, una violazione del protocollo che non ha scusanti, sui social del “Foglio” andiamo avanti da tre settimane, non varrà certamente la pena di dire che la mostra “Louvre couture. Objets d’art, objets de mode”, da poco aperta al primo piano del museo più visitato del mondo, poggi su una contraddizione. 


Se davvero gli abiti che vi sono esposti, tutti recenti e talvolta della scorsa stagione, sono stati davvero ispirati dalle sale in cui li hanno temporaneamente collocati, come recita il leporello dell’esposizione, non è ben chiaro perché si trovino proprio nell’ala del palazzo dove nessuno si è mai avventurato, essendo in genere troppo impegnato a farsi scattare una foto con la sciarpa di chiffon mentre scende dallo scalone “senza potersi fermare” come Audrey Hepburn in “Cenerentola a Parigi” con la Nike di Samotracia sullo sfondo, quella che gli americani pronunciano “naiki”. Sessantacinque abiti, in gran parte molto noti (nulla fa più scena ed è più memorabile dei Galliano per Dior, ma c’è pure, nella versione in nero, lo stesso Balenciaga rosso attualmente esposto alla mostra “Memorabile.Ipermoda” curata da Maria Luisa Frisa al Maxxi, purtroppo la moda è arte riproducibile) sono stati allestiti con rimandi perfettamente comprensibili, assolutamente didascalici (velluto con velluto, cineseria con cineseria, pizzo con pizzo), fra tavoli, tappezzerie e sediolone di cui nessuno si era occupato fino ad oggi e che rappresentano l’accidente di ogni museo carico di storia, oltre che la dannazione di qualunque curatore non possa spostarli altrove quando necessario. 


Ci sono giusto un paio di azzardi, fra i quali un paio di stivali affiancati a un’opera bizantina, che hanno fatto saltare la mosca al naso al direttore comunicazione del grande gruppo emiliano, perché anche la moda ha i suoi ritegni, e certe invasioni non piacciono nemmeno a lei. “Cerchiamo di vederla in modo positivo, dopotutto fino a oggi il Louvre non si era mai occupato di moda”, dice il collega, autorevolissima voce internazionale e curatore di ottime mostre in anni non recenti. Ma se lo scopo dell’operazione è ovvio e anche comprensibile, cioè dare vita a stanze dimenticate con un argomento convincente pour le peuple e dopotutto, fuori dalla mostra dei Dolce&Gabbana al Grand Palais ci sono file interminabili, non è ben chiaro perché i curatori del Louvre non si siano rivolti ai cugini del MAD, il Musée des Arts Décoratifs che risiede nello stesso palazzo e organizza mostre strepitose (quella in via di chiusura, “Intime”, una riflessione fra arte e design sul tema della privacy dal Rinascimento ai social che fu anche l’ultimo lavoro allestitivo di Italo Rota, è da mozzare il fiato) e abbiano fatto tutto da soli, che è l’errore fatale degli storici dell’arte quando si improvvisano storici della moda, convinti che ne sia un derivato, sussidiario peraltro, e trascurandone l’elemento essenziale, che è l’intima relazione con il corpo e il corpo sociale. Antropologia, sociologia, storia, anche economica, nella moda arrivano disgraziatamente prima dell’arte, nonostante le apparenze e anche le rivendicazioni, nemmeno troppo recenti visto lo sfruttamento che ne faceva già Paul Poiret. Ed è piuttosto bizzarro, ancorché e sempre comprensibile, che in questo periodo di crisi economica della moda si levino da più parti voci interessate ad accreditarsi in un ambiente che fino all’altro ieri ritenevano ininfluente, per non dire “leggero”, di certo secondario rispetto ad altre discipline.

L’ultima di queste voci giunge da Roma, da Palazzo Corsini, sede dell’Accademia dei Lincei, dove Elsa Schiaparelli molto notoriamente nacque e dove, ventunenne, entrò in conflitto con il padre Celestino, celebre arabista e linguista nonché primo bibliotecario della stessa Accademia, per aver pubblicato, con la complicità del cugino Attilio, un libro di poesie, “Arethusa”, che pure le valse l’interesse delle sue contemporanee (“anima orientale, ho chiamato invece Elsa Schiaparelli; ma forse, no. Orientale per l’esuberanza, come di magnifica flora, del verso; per le ardenti immagini; per la plastica bellezza che noi sentiamo in lei e ch’ella, forse, adora sopra ogni cosa; per la passionalità che si rivela e si nasconde, in un gioco di cerule luci; ma nordica, anche, per la nebulosità, il simbolismo anzi di cui si compiace velare ogni sua lirica, per una profondità più riposta di concetto e di intento che a tutta prima sfugge”, scrive di lei nel 1916 Camilla Bisi, poetessa a sua volta e figlia della celebre Sofia Bisi Albini, attivista per i diritti delle donne e fondatrice de “La nostra rivista”). A più di mezzo secolo dalla scomparsa di Schiaparelli, Palazzo Corsini ricorda la sua famosa inquilina con un volume edito da Electa, definito “libro-mondo” e promosso da Flaminia Gennari Santori, fino allo scorso novembre direttrice delle Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini e Galleria Corsini, con la maison Schiaparelli, qui presente nello scritto di Francesco Pastore, responsabile dell’area “heritage&cultural projects” della maison: “Elsa avant Elsa, Elsa Schiaparelli Roma, New York, Parigi”. Schiap aveva già lasciato ampissima traccia della propria formazione, unita a ricordi, aneddoti, perfino indicazioni bibliografiche, nell’autobiografia scritta dopo il fallimento della sua impresa, “Shocking Life”, edito in inglese nel 1954 e tradotto in francese nello stesso anno. Questo nuovo volume, ricco di immagini, la ripercorre quasi in ogni rigo, fornendo però approfondimenti, suggestioni sui libri della biblioteca di casa, sui suoi primi viaggi, e soprattutto su quello che è, senza dubbio, un centro d’interesse vero, e cioè la riproduzione parziale delle sue poesie, scritte a quattordici anni ma pubblicate al raggiungimento della sua maggiore età.

In quel libretto di versi appassionati, sottilmente erotici, novantotto pagine tirate presso la Società tipografica La Gutenberg dal milanese Quintieri, già editore di Capuana e delle prime traduzioni di Alexandr Blok, oltre che di Annie Vivanti, sulla plaquette una dedica a clef (“a chi amo, a chi mi ama, a chi mi fece soffrire”), ritrovato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, quando si credeva fosse andato perduto, si ritrova la fascinazione della giovanissima Elsa per i miti del Decadentismo, la teosofia (“ditemi, trapassati, quando il grande/battito delle vene allenta e muore/” e, come poteva essere altrimenti, per l’oriente che era al centro non solo della moda dell’epoca, ma degli interessi di famiglia. E proprio per questo, il saggio più originale del volume, curato da Luca Scarlini, “scrittore, drammaturgo per teatri e musica”, indaga la relazione fra Schiaparelli e l’occulto, analizzandone l’esperienza artistica nel coté più esoterico del Surrealismo e nell’inevitabile affinità con Leonor Fini. Fra poche settimane, a Palazzo Reale a Milano, verrà inaugurata una grande mostra dedicata all’artista italo-argentina. Vi saranno esposti i costumi disegnati per il “Credulo” di Domenico Cimarosa al Teatro alla Scala. Ma anche la famosa bottiglia del profumo “Shocking”.

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