Foto ANSA

Intervista al telefono

Se la bellezza non conta non ha senso parlarne. Colloquio con Pilar Fogliati

Paola Jacobbi

Botta e risposta con l'attrice del momento, che veste vintage (“la moda assomiglia alle idee che abbiamo”) e che dice grandi verità: “Siamo tutti il risultato dell’adolescente che eravamo”

È il suo momento, è la ragazza d’oro del film italiano che ha superato i nove milioni di euro in sole due settimane, cioè il popolarissimo “FolleMente” di Paolo Genovese. Il risultato è che anche chi non la conosceva, adesso sa chi sia Pilar Fogliati: 32 anni, nome esotico (viene da una nonna argentina), spigliatezza romana. Parla svelto e senza esitazioni, solo ogni tanto si percepisce un filo d’ansia, non a caso è stata lei a doppiare il personaggio di Ansia nel cartoon “Inside Out 2”, (che sarebbe l’antesignano cartoon del suo film, peraltro). In un contesto in cui al moderno canone di bellezza corrispondono le molte, troppe, unidimensionali e omologate ragazze che si vedono sui social media, Pilar non somiglia a nessuna. Del resto, lei ha scelto il cinema e il cinema, dice, “non sa che farsene di quelle che chiamano Tik Tok face, faccia da Tik Tok”, cioè quei volti con la boccuccia polposa e protesa verso l’obiettivo, gli sguardi di chi si prende sul serio e sa che, dove non arriva la natura, arrivano i filtri. Per fortuna, aggiunge Pilar, il cinema chiede proprio il contrario, chiede di non omologarsi: non ha tatuaggi o piercing, non ha mai alterato la forma delle sue sopracciglia, non nasconde le orecchie leggermente a sventola, si veste senza stravaganze, scegliendo marchi di abbigliamento solidi come Sportmax e Giorgio Armani e gioielli di Pomellato. 

Sul palco del teatro Ariston, durante il Festival di Sanremo, una delle tappe imprescindibili della campagna promozionale per “FolleMente”, ha indossato un abito d’archivio, del 2006, di Armani Privé. Una scelta che dice tutto: i vestiti belli non sono necessariamente quelli dell’ultima stagione, se il capo è giusto può essere anche di vent’anni fa. E si può anche indossare più di una volta, è preowned, preloved, più green. “Se mi prestassero di nuovo quell’abito meraviglioso, sarei pronta a indossarlo alla prossima occasione importante, magari cambiando qualche accessorio”. Se non si fosse capito, Pilar Fogliati ama la moda, ha ereditato il gusto da un padre molto elegante “l’ho visto sempre in doppiopetto”, conoscitore di marchi ricercati. Meno dalla madre, “poco interessata” che è come si definiscono tante attrici che i tappeti rossi li detestano o dicono di detestare. “A me piacciono un sacco, altroché” ammette. “Ormai siamo tutti abituati a finire in video o in foto con i nostri outfit, ma io non tendo all’accumulo; piuttosto, cerco di essere coerente, non mi interessa cambiare ogni giorno, avere un look diverso in ogni scatto. Preferisco ripetermi, avere uno stile, una specie di divisa, mi piace il classico ma con un twist, un classico con un piccolo errore. La moda assomiglia alle idee che abbiamo e queste sono le mie”.

Pilar si è arresa alla sua “classicità”, chiamiamola così, solo dopo un bel po’. Racconta: “Da adolescente, come la maggior parte di noi, non mi sentivo bella, ero profondamente insicura. Avrei voluto essere minuta e rock come la mia cantante preferita, Avril Lavigne. Mi compravo i braccialetti con le borchie per assomigliarle, per adeguarmi allo stile “skater boy” e “grunge” che andava allora, senza capire che quell’immagine non c’entrava niente con me. Io ero una spilungona con le tette grosse e, adesso so benissimo che suonerà ridicolo, ma io quelle tette grosse le odiavo”. È cresciuta a Mentana, vicino a Guidonia, perché il padre, imprenditore con il pallino per la campagna, si è voluto trasferire fuori Roma, quando lei aveva appena nove anni: casa con orto, animali, una vita quasi a chilometro zero. “Ma non ero felice, mi sentivo tagliata fuori dalle abitudini delle amiche che stavano in città, mi sentivo lontana da tutto, ci ho sofferto parecchio, per questo devo avere sviluppato una sorta di devozione amorosa per Roma: siamo tutti il risultato dell’adolescente che eravamo”. Ha capito che fosse il caso di lasciar perdere Avril Lavigne e dedicarsi finalmente a costruire Pilar, liberandosi delle insicurezze, più o meno quando ha cominciato a fare l’attrice, anzi quando è stata selezionata per frequentare l’Accademia D’Arte Drammatica a Roma. Un po’ di teatro, un po’ di televisione fino all’arrivo del vero claim to fame. Si tratta di un video girato con un telefonino mentre Pilar intrattiene una tavolata facendo le imitazioni delle ragazze romane: la coatta, la pariolina, l’aristocratica del centro.

Un po’ Franca Valeri e un po’ Carlo Verdone, questa Pilar colpisce subito: è brava, spiritosa e pure bella. Combinazione rara. “Per forza, in un cinema che da decenni è scritto prevalentemente da uomini, la donna bella è stata spesso raccontata come una creatura irraggiungibile che quasi non parla, forse non pensa e probabilmente non va nemmeno in bagno” ride Pilar. “Se stai là, sul piedistallo dell’ineffabile bellezza, è difficile che tu possa avere anche quel tipo goffaggine che fa ridere, che rende simpatica. Ma le cose cambiano. I soliti stereotipi, dalla segretaria brutta con l’occhialone ma intelligentissima, al suo opposto, la sventolona con la vocetta da oca, per fortuna si vedono sempre di meno. Sui social, che io seguo con grande attenzione, noto invece un’abbondanza di donne comiche e anche bellissime. Si ironizza parecchio sulla bellezza, sulla schiavitù della bellezza che è piena di bugie. Tipo? Beh, quando un uomo dice che gli piacciono le ragazze acqua e sapone, noi donne ridiamo perché sappiamo benissimo che il trucco al naturale è, appunto, un tipo di trucco”. La bellezza, aggiunge, ha un potenziale comico enorme, come dimostra uno dei personaggi di “Romantiche” (2023, ancora disponibile su Netflix), il primo film (per ora, ne ha già un altro in testa) che ha scritto e diretto.

L’ultimo degli episodi metteva in scena tale Tazia de’ Tiberis, pariolina con piglio da femmina alfa, in realtà fragile come un cracker. Incentiva le amiche a dimagrire per alzare l’autostima, intanto, le invita a mitigare il potere dei maschi con l’inganno delle finte lusinghe: “Quanto mi piacerai quando sarai pelato” o “Adoro la tua pancetta”. Ha appena finito di girare un altro esordio, “Breve storia d’amore” che è il primo film da regista della sceneggiatrice Ludovica Rampoldi (“Il traditore”, “Esterno notte”, “Gomorra”). Ormai le donne dietro la macchina da presa non sono più una rarità. Pilar si immagina questa femminilizzazione progressiva dell’industria come un’avanzata rivoluzionaria, come “una specie di “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo composto da registe, sceneggiatrici e attrici, tante attrici che scalano questo ambiente che è sempre stato molto maschile e maschilista”. Un mondo idilliaco, questa marea? “Finché saremo poche ci sarà sempre un po’ di rivalità, più o meno esplicita, del tipo “mi sono ritagliata il mio spazietto e lo devo proteggere”, ma poiché sta montando una marea che comprende anche grandissimi successi assoluti tipo quello del film di Paola Cortellesi, spero che alla fine non ci sia più una competizione settoriale e vinca solo il talento: o si è bravi o non si è bravi, maschi e femmine”. Già ma, per le donne, c’è ancora la discriminante che divide in gruppi: le belle o le altre. “È una specie di ossessione collettiva, che porta a interventi estetici più o meno invasivi, un’ossessione contradditoria perché poi a tutti piace dire e ribadire sui social quanto l’aspetto esteriore non dovrebbe influenzare e influenzarci nel giudizio sulle persone. Però anche tutto questo parlarne mi lascia perplessa. Alla fine per dire che la bellezza non è importante, ne parliamo sempre troppo”.

Di più su questi argomenti: