
Pellicce e jolie madame. La nuova estetica di Prada nella collezione interno 2025
Il foglio della moda - utili ripassi
I nodi un po' dimenticati della trattativa Versace-Prada
E' un ottima cosa, ma non può prescindere da una valutazione caratterial-psicologica e non solo strategica. Donatella Versace vive nel culto del fratello. E nel pregresso dell’acquirente ci sono Jil Sander e Helmut Lang
Chi frequenta il sistema della moda da qualche decennio, ricorda benissimo gli spettacolari litigi che fra il Duemila e il Duemilaquattro punteggiarono il rapporto d’affari fra Patrizio Bertelli a Jil Sander, si intende la leggendaria stilista tedesca di cui si collezionavano religiosamente i tailleur pantalone, non il marchio di oggi, proprietà del gruppo OtB di Renzo Rosso, dal quale sono stati cacciati una settimana fa i due designer, Luke e Lucie Meier, al termine di una sfilata che a tutti era sembrata parecchio riuscita.
Verso la fine del secolo scorso, ricco di quella che sarebbe passata alla storia come la “simpatica plusvalenza” Gucci, un corposo pacchetto azionario acquistato mentre infuriava la battaglia Arnault-Pinault per il controllo della maison fiorentina e venduto dopo nove mesi di trattative e di valutazioni per capire come si sarebbe evoluta la vicenda al sire di Roubaix per 234 miliardi di lire, subito reinvestiti, Bertelli accarezzò l’idea di dare vita a un polo del lusso minimalista, elegante, colto, insomma un’evoluzione del progetto che andava costruendo già da vent’anni con la moglie, Miuccia Prada. Anzi, la stampa lo ribattezzò subito con questa locuzione: “polo del lusso minimalista”. La Francia andava costruendo il suo anzi i suoi, entrambi massimalisti, il fallait repondre. Nello stesso 1999, Bertelli acquistò dunque in rapida successione Jil Sander, Helmut Lang e Church’s, grazie alla quale avrebbe potuto dar vita a quelle economie produttive di scala che non gli erano riuscite durante il rapido passaggio azionario nella maison Fendi attorno al 1998, di cui qualcuno di noi possiede ancora le scarpe made in Pradaland, e che oggi potrebbero innescarsi di nuovo se, oltre a Versace, argomento di speculazione continua di questi mesi, Prada volesse portare a termine anche la trattativa con Jimmy Choo, altro marchio un po’ appannato della compagine Capri Holdings che nel 2018 acquistò Versace per 1,8 miliardi e che oggi si dice sia in discussione per 1,5 miliardi. Tornando a quella finanza pre-Duemila, l’acquisizione del 75 per cento delle azioni ordinarie e il 15 per cento delle privilegiate di Jil Sander AG costò a Prada 275 milioni di marchi, circa 140 milioni di oggi: Sander, intuendo quale sarebbe stata l’evoluzione del mercato della moda, cercava di espandersi negli accessori, Bertelli di contrastare la diatriba Arnault-Pinault, che peraltro aveva abilmente sfruttato.
Pochi mesi dopo, il patron di Prada e l’elegante signora di Amburgo erano agli stracci, anzi alle borsette lanciate: lei se ne andò, vi furono diversi tentennamenti alla direzione creativa, compreso un passaggio di Milan Vukmirovic, bravissimo e oggi dimenticatissimo, fino a un altrettanto spettacolare rientro della signora nel 2003, salutato da un tripudio mediatico e da una ripresa delle vendite interessante ma non sufficiente per coprire il deficit accumulato nel frattempo. Nel novembre del 2004, il nuovo divorzio - i due evidentemente non riuscivano a superare l’anno di collaborazione senza litigare - e da quel momento una lunga serie di perdite, nonostante un programma di riduzione dei costi che includeva tagli al personale allo showroom di Amburgo e il trasferimento di tutta la produzione in Italia.
Nel 2006, Bertelli cedette Jil Sander al fondo di private equity Change Capital Partners (CCP) per circa 120 milioni di euro. Con Helmut Lang andò altrettanto male, nonostante sulla carta fossero fatti per intendersi e i modi di comunicare dell’artista viennese avrebbero insegnato moltissimo al brand milanese nei pochi anni di scambio. Ormai oggetto di collezionismo e di culto, in origine Lang era - anzi è, vive a New York e sta benissimo - uno scultore raffinato. Aveva fondato il marchio eponimo del 1986 a Parigi: unico nel suo genere, profondamente influenzato dalle istanze culturali che garbavano al suo creatore, Helmut Lang era fatto di tagli rigorosi, linee essenziali, tessuti hi-tech – allora agli albori - e ricerca continua sui materiali. Le sue sfilate, piuttosto indimenticabili per l’aura sacrale che le circondava, erano riservate a una cerchia strettissima e si svolgevano su passerelle spoglie, con le modelle prive di trucco e la musica al minimo.
Nonostante le apparenze, Lang era un istintivo per cui, fra i primissimi a comprendere le potenzialità delle boutique monomarca, aveva sviluppato una ricca rete di concept store sparsa tra New York, Hong Kong, Parigi e Mosca, dove la moda incontrava l’arte e sulla quale si sarebbero modellate molte altre proposte similari, compresa quella degli Epicenter Prada. Fu il primo a trasmettere uno show in diretta streaming, a organizzare sfilate co-ed (questa a bene vedere non una buonissima idea: le linee maschili nel co-ed perdono sempre), a lanciare online i propri prodotti, ad anticipare le presentazioni al punto di mutare per sempre il calendario delle sfilate di New York, al quale come noto seguono tutti gli altri, incluso cioè quello italiano. Prada acquisì il 51 per cento di Helmut Lang nel 1999 (il restante 49 per cento quattro anni più tardi) con gli stessi obiettivi perseguiti con Jil Sander - espandere il marchio e le linee di prodotto - e finì per scontrarsi sugli stessi argomenti: l’espansione eccessiva, il controllo della direzione creativa.
Lo stilista viennese entra contrarissimo al merchandising delle collezioni e pretendeva di dire la sua sullo sviluppo di ogni accessorio: se ne andò nel 2005, ritirandosi addirittura dal sistema, e Suzy Menkes, all’epoca all’”Herald Tribune” e molto battagliera, vergò parole severe per entrambe parti in causa: “Alla base dell’addio di Lang vi sono la difficoltà di costruire un'azienda di successo in un mondo saturo di brand e i problemi che si creano quando un designer indipendente e individualista deve imparare a lavorare in una cultura aziendale”. A ben vedere, l’operazione non funzionò mai: il brand dimezzò sostanzialmente il proprio fatturato di 46,3 milioni di dollari nel 2001 a 24,8 nel 2004.
L’uscita del designer provocò il fuggi fuggi dei buyer, convinti a ragione (si era vent’anni fa, quando i designer non erano una commodity ma un riferimento reale per chi acquistava), che un team stilistico non avrebbe mai potuto rimpiazzare un designer di quel calibro, anzi “una persona del suo valore”, come dissero a New York che è cosa diversa e attiene al singolo, non alla categoria. Il gruppo Prada vendette quel che rimaneva di Helmut Lang al gruppo giapponese Link Theory Holdings, non se ne sentì più parlare, Bertelli scelse di concentrarsi sui suoi marchi, Prada e Miu Miu. Qualche tempo fa, ammise pubblicamente di aver compiuto degli errori nella cessione di certe deleghe e certe decisioni.
Questa lunghissima premessa per ricordare su quali basi stiano proseguendo appunto le trattative fra Prada e Versace, che Capri Holdings intende dismettere da tempo e di cui scrivevamo già un paio di mesi fa, cioè subito dopo che l’Authority antitrust americana aveva sollevato dei dubbi, o per meglio dire aveva posto un veto, sulla concentrazione fra la stessa società, che nel settembre del 2018 aveva acquisito Versace dal fondo Blackstone, e il conglomerato Tapestry. A fine ottobre un giudice federale Usa aveva bloccato infatti l'acquisizione del gruppo Capri Holdings, proprietario di Michael Kors, Versace e Jimmy Choo, da parte del suo concorrente diretto, proprietario fra gli altri dei marchi Coach, Kate Spade e Stuart Weitzman, perché la fusione avrebbe indebolito la concorrenza sul mercato del cosiddetto lusso accessibile. La decisione, dopo la quale i due avevano scelto di abbandonare il progetto di fusione, è stata seguita da un ulteriore decremento dei risultati di Capri Holdings, migliorati in Borsa solo un paio di giorni fa, quando le voci su una possibile chiusura delle trattative fra Prada e Versace, sono state dichiarate da Bloomberg vicine e la prima fase della due diligence concluse senza intoppi. Si parla infatti di fine marzo, tecnici al lavoro sul dossier che abbiamo sentito in queste ore confermano che l’operazione sia alla stratta finale, che non significa alla chiusura perché i due futuri partner si chiamano appunto Patrizio Bertelli e, ancora molto presente, Donatella Versace.
Nelle sue ultime performance, il gruppo Tapestry ha dimostrato di essere molto vitale: nel secondo trimestre, chiuso il 28 dicembre scorso, il fatturato del gruppo ha raggiunto quasi 2,20 miliardi di dollari, circa 2,12 miliardi di euro, con un aumento del 5 per cento a cambi costanti rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, mentre la fase discendente di Versace sembra non avere fine. Nel terzo trimestre dell’anno fiscale in corso, la casa ha registrato un fatturato di 193 milioni di dollari, in calo del 15 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con una perdita operativa che è salita a 21 milioni di dollari.
Un anno fa, il “Foglio della moda” aveva affidato a Tony Di Corcia, biografo di Gianni Versace, un articolo impossibile, e cioè immaginarsi dove si sarebbe trovata e quale sarebbe stata la moda di Gianni Versace se in quella maledetta mattina del 15 luglio 1997 non fosse stato freddato a Miami da un pazzo che forse non lo era. E Di Corcia ha scritto quello che qualunque critico di moda del mondo non improvvisato immagina e forse sa, e cioè che la sua moda sarebbe stata, come lo era sempre stata, contemporanea, moderna, attraente. Quella di Donatella Versace continua a vivere nel mito del fratello, in un culto a tratti disperato, talvolta con gli stessi modelli di abito dei primi Anni Novanta indossati dalle modelle di quegli anni, di un’eredità che non vuole svilupparsi in un racconto autonomo, nonostante sulla sua creatività si siano succeduti stilisti anche eccezionali, come Christopher Kane. Versace attende da quasi trent’anni il bacio del risveglio, ed è evidente che Donatella Versace, che in un’altra vita avrebbe “voluto fare la rockstar” come ha detto pochi giorni fa ad Anna Wintour che la intervistava, non intenda dare al brand questo bacio. Per lei, quel fratello colto e generoso, spiritoso e geniale, è sempre lì, dormiente in una stanza del palazzo milanese di via Gesù, l’unico che non sia stato venduto perché lì è iniziata la grande ascesa, e perché rappresenta un asset straordinario. Dunque, a meno che lei stessa accetti di farsi da parte, accontentandosi di un ruolo onorario, il turn around di Versace si rivelerà faticosissimo, nonostante Miuccia Prada e Donatella Versace si stimino moltissimo, siano anzi amiche, e Bertelli, affiancato da Andrea Guerra, gestori eccezionali, come peraltro hanno dimostrato i dati di bilancio diffusi poche ore fa.
Fra i gruppi del lusso, Prada si è dimostrato il migliore, con un bilancio 2024 chiuso con ricavi netti di 5,4 miliardi di euro, in crescita del 17 per cento rispetto al 2023, e una performance spettacolare per Miu Miu, la cui amministratrice delegata, Benedetta Petruzzo, è stata pochi mesi fa ingaggiata da Bernard Arnault a capo di Dior e da lì dovrà seguirne una nuova fase di presumibile crescita, accanto al direttore creativo Jonathan W. Anderson che, l’annuncio è atteso a breve, andrà a sostituire Maria Grazia Chiuri. Non sarà facile per la nuova ceo di Miu Miu, Silvia Onofri, sostenere una crescita del 93 per cento, pari a 1,228 miliardi, che va ad accompagnare gli ottimi risultati anche di Prada e un utile netto che ha toccato gli 839 milioni, con un incremento del 25 per cento. Insomma, il gruppo ha cash flow, forze e capacità più che sufficienti per fare di Versace un nuovo successo, e non ci sono dubbi che la nascita di un polo italiano risponderebbe ad aspettative troppo a lungo disattese non nel settore, ma nel Paese intero. Ma, come sempre, il business è fatto di uomini, e gli equilibri più difficili di questa acquisizione stanno tutti lì.

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