
Deva Cassel (foto Epa, via Ansa)
Il Foglio della moda
Perché il volto di Deva Cassel non ha mistero
I film non hanno bisogno solo di volti belli, ma di volti che raccontino e che siano credibili in qualsiasi epoca e situazione. E se vediamo gli attori in ogni momenti della loro vita, dai red carpet a mentre si allenano in palestra, è ovvio che stoni vederli interpretare personaggi
C’era un tempo in cui il cinema si nutriva di volti. Veri, imperfetti, distintivi. Bellezze perfette ma anche facce scavate dagli anni, nasi importanti, sorrisi sghembi, occhi segnati dalla vita. Oggi, invece, sembra tutto appiattito, levigato e reso uniforme al limite del ripetitivo. Il fenomeno è stato definito iPhone Face (o Smartphone Face) e non riguarda i ritocchi con filler e filtri Instagram, ma qualcosa di più sottile, anche se lampante e irrimediabilmente moderno: un modo di stare davanti alla cinepresa che possiede soltanto chi è nato e cresciuto dell’era digitale.
Guardiamo un qualsiasi film in costume recente. Perché Anya Taylor-Joy in “Emma” sembra più il personaggio di un videoclip indie che un’eroina di Jane Austen? Perché Florence Pugh in “Oppenheimer” appare così estranea agli anni Quaranta? E ancora, come mai Jacob Elordi, nonostante la fisicità che potrebbe sembrare perfetta per ruoli d’epoca, ha sempre l’aria di un modello Calvin Klein entrato per sbaglio nella macchina del tempo? La risposta è semplice, un po’ drammatica: perché il suo è il volto di chi sa esattamente come gestire la propria immagine su uno schermo. Questa dinamica riguarda un’intera generazione di attori cresciuti in quella che definirei la consapevolezza dell’inquadratura, cinepresa o fotocamera dello smartphone che sia. Questo ha cambiato il loro modo di esprimersi, di muovere la bocca, di fissare un punto fuori campo. Le emozioni sono filtrate da una coscienza visiva e digitale: sanno esattamente quando inclinare la testa, quando sollevare il sopracciglio, quando lasciare che la luce accarezzi il viso in modo che sembri spontaneo, quasi lo facessero per sé stessi e non per esigenze di copione. Questa iper-consapevolezza li tradisce ancor più nei film ambientati in epoche passate perché un tempo non ci si muoveva, o ci si atteggiava, e persino non si guardava così.
Fate un giro nei musei o fra le prime raccolte fotografiche: quegli sguardi da sotto in su non esistevano. E non si tratta solo di capacità recitativa, ma qualcosa di più profondo. Oggi i ruoli secondari, per esempio, sono affidati a volti levigati, intercambiabili, figli di un algoritmo che ha stabilito che la bellezza debba essere omogenea e i lineamenti non convenzionali un tabù, benché abilmente mascherato sotto la cartapesta della diversity&inclusion. I caratteristi, un tempo pilastri del cinema, stanno scomparendo. Volti come quelli di Carlo Delle Piane, Mario Brega, Marty Feldman o Eli Wallach sono sempre più rari, non più accettabili dal punto di vista estetico in una società patinata.
È appena stato diffuso “Il Gattopardo” prodotto da Netflix, che a dispetto delle dichiarazioni di rito (non certo quelle del regista, che sono addirittura tre) non potrà sottrarsi al paragone con il capolavoro diretto da Luchino Visconti. Nella nuova serie, don Fabrizio Corbera, principe di Salina, ruolo che fu di Burt Lancaster, è interpretato da Kim Rossi Stuart, Angelica Sedara da Deva Cassel, mentre Saul Nanni dovrà reggere l’inevitabile confronto con Alain Delon come Tancredi Falconeri. Potrebbe guadagnarvi solo il personaggio di Concetta, che nella versione 2025 ha maggiore spazio rispetto al film del 1963 ed è impersonato da Benedetta Porcaroli, ma il punto, in fondo, non è nemmeno questo, il paragone è in fondo improprio perché rispetto agli attori scelti da Visconti, che poteva spendere mesi, anni, nella ricerca di un certo volto, basti pensare al Tadzio di “Morte a Venezia”, Björn Andrésen, questi volti contemporanei, truccati e vestiti come nel 1860 paiono più simili a un meme che a protagonisti di un film storico. Forse il peso qualitativo della versione viscontiana resta troppo grande, ma sicuramente l’ansia da televisore in 4K sterilizza quello che la grana della pellicola 35 mm Technicolor esaltava.
Per tornare al cuore del discorso: i volti moderni, in alta risoluzione sono identici a quelli che vediamo tutti i giorni sui loro profili social. Claudia Cardinale recitava solo davanti alla cinepresa, Deva Cassel è nata e cresciuta davanti a uno schermo digitale. Verrebbe quasi da dire che è una generazione di attori che condivide più che recitare. Se li vediamo in ogni momenti della loro vita sui red carpet, al trucco la mattina, mentre pranzano con gli amici, mentre si allenano in palestra, è ovvio che stoni vederli interpretare personaggi di secoli fa con le stesse movenze ed espressioni che hanno mentre ci mostrano cosa mangiano a colazione. Prendiamo Timothée Chalamet, passa da Re Enrico V a Willy Wonka, da Bob Dylan a Paul Atreides di “Dune”, un tempo si sarebbe detto camaleontico, oggi rischia che l’unica cosa a cambiare sia il contesto e i vestiti, perché non si vede più il personaggio, ma soltanto il viso dell'attore del momento. La questione è che i film non hanno bisogno solo di volti belli, ma di volti che raccontino e che siano credibili in qualsiasi epoca e situazione. Se l’interpretazione di una parte ha la stessa empatia di un reel motivazionale fatto per i social, il rischio è che il passato diventi un'illusione patinata, una fantasia estetica scollegata dai fatti reali. Non è un appello alla bruttezza, né la demonizzazione del progresso tecnologico, ma un invito a ricordare che il cinema, prima di essere immagine, è credibilità, soprattutto quando racconta la storia.


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