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Perché la moda, a Milano, chiede a Meloni di non essere più lasciata sola
Il ministro Adolfo Urso ha provato a dare garanzie sugli aiuti e presentava agli imprenditori il piano moda del governo, volto a rafforzare la filiera e ad accelerare l’internazionalizzazione del settore. L'assenza della premier però si è fatta sentire
Per una fortunata congiuntura astrale, Giorgia Meloni ha deciso di dare buca all’incontro milanese in cui il Mimit, affiancato da Sace, Ice, Cdp e Invitalia si confrontava a porte chiuse con Altagamma e Camera Nazionale della Moda, cioè con le grandi imprese del Made in Italy, nel giorno in cui nella moda italiana e mondiale sono successi degli sconquassi, perché in caso contrario il dietrofront della premier a un incontro che il presidente di Cameramoda Carlo Capasa e il presidente di Altagamma Matteo Lunelli avevano pianificato da mesi per ottenere un impegno concreto da parte del governo in merito alla crisi del settore si sarebbe notato in misura ancora maggiore e più deludente. Mentre Adolfo Urso dava garanzie sugli aiuti e presentava agli imprenditori il piano moda del governo, volto a rafforzare la filiera e ad accelerare l’internazionalizzazione del settore, “anche alla luce della guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti”, annunciando che martedì prossimo presenterà il piano alle associazioni della filiera e quindi il 24 di marzo al tavolo della moda, già convocato, fuori cambiavano infatti ancora una volta gli assetti creativi nei grandi brand e anche, in buona misura, le loro strategie.
Verso le undici del mattino, si è saputo che Donatella Versace aveva accettato di conservare solo un ruolo di brand ambassador nell’impresa che porta il nome della sua famiglia, lasciando a Dario Vitale, già alla guida dell’ufficio stile di Miu Miu, la carica di chief creative officer di Versace: un cambiamento che apre di fatto le porte all’accordo di cessione della maison della Medusa al gruppo Prada da parte di Capri Holdings, che la controlla dal 2018 e che, come avevamo scritto sul Foglio una settimana fa, era assolutamente necessario.
Alle cinque del pomeriggio, cioè un minuto dopo la chiusura delle Borse, il gruppo Kering ha annunciato invece la nomina di Demna Gvasalia, nato in Georgia e residente a Zurigo, da dieci anni direttore creativo di Balenciaga, a direttore creativo di Gucci al posto di Sabato De Sarno, dimissionato pochi giorni prima della sfilata milanese, un mese fa.
Il chiacchiericcio si è spostato su queste due notizie, la prima non troppo inattesa, la seconda parecchio, visto che Demna aveva presentato solo due giorni fa una collezione mirabile a Parigi, e per molti versi è un peccato, perché l’argomento del giorno, almeno in Italia che sia per Gucci sia per Balenciaga produce, gli argomenti avrebbero dovuto essere quelli legati a un piano industriale vero e nuovo per i distretti in crisi, e la presenza di Meloni a Milano un fatto rilevante. Se in Italia, al contrario della Francia, il rapporto fra la politica e la moda è sempre stato difficile, per ragioni storiche antichissime e per l’errata convinzione che, in qualche modo, il settore se la cavi sempre, è chiaro che il cambiamento non più solo congiunturale, ma strutturale, in corso, richieda davvero attenzione; e se per le grandi imprese si rende necessario individuare metodologie più rapide per affrontare la crisi di liquidità con fondi di garanzia e rotativi, le difficoltà sono sentite in misura ancora maggiore dalle piccole imprese, gli artigiani di cui piace sempre ricordare il ruolo di “spina dorsale del paese”, e che in quindici anni hanno perso qualcosa come centoventimila addetti. Mentre Camera Moda e Altagamma discutevano con Urso della necessità di “sostenere il settore grazie alla interlocuzione tra pubblico e privato nonché dare il via ad eventuali interventi in equity per valutare possibili nuovi strumenti che favoriscano acquisizioni o partecipazioni nella filiera da parte dei brand”, in Cna Federmoda si è discusso poche ore fa di una situazione estremamente difficile, sulla quale pesano anche i costi dell’energia e che il nuovo decreto non aiuta in alcun modo, escludendo dai tagli alle bollette oltre un milione di imprese in quanto titolari di potenza installata inferiore a 16,5kW. Se il biennio 2023/2024 è stato molto duro per il settore della moda, che ha perso il 9,7 per cento di valore aggiunto contro il -1,9 per cento del comparto manifatturiero riducendo del 3 per cento la forza lavoro, l’anno in corso rischia di essere ancora peggiore. Le misure di aiuto si rendono necessarie. Ma anche una presenza reale, un vero ascolto, per iniziare non sarebbe male.

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