L'imprenditore secondo Vargas Llosa: non un pidocchio ma un eroe discreto

Alberto Mingardi

Don Felícito Yanaqué, alle elementari, non aveva mai messo le scarpe. A cinquantacinque anni, quando lo incontriamo all’inizio dell’ultimo libro di Mario Vargas Llosa, “L’eroe discreto”, è un signore perennemente incravattato, piccolino, silenzioso.

Don Felícito Yanaqué, alle elementari, non aveva mai messo le scarpe. A cinquantacinque anni, quando lo incontriamo all’inizio dell’ultimo libro di Mario Vargas Llosa, “L’eroe discreto”, è un signore perennemente incravattato, piccolino, silenzioso. Si tiene in forma con gli esercizi mattutini di qi gong. Ha una moglie che non l’ha mai reso felice, due figli, una piccola impresa di trasporti. Quelli come lui, in un romanzo, non fanno mai bella figura.

 

Grandi fortune, grandi imbrogli: questo è un binomio che può scatenare la penna, che le ricchezze celino passioni rovinose, il lacerante bisogno di fare i conti col passato, o solo un’avidità inesausta. Don Felícito di passioni a divorarlo ne ha appena una: Mabel. Davvero ha amato solo fra le sue braccia. Ma neanche Mabel, l’euforia della bellezza, e il piacere cui si scopre goffamente dedito, scalfisce in Don Felícito quella forma che è la vera sua sostanza.

 

L’ultimo romanzo di Mario Vargas Llosa rivela un Perù diverso da quello de “La Casa Verde”, immenso classico vargasllosiano, al quale strappa il personaggio del sergente Lituma. Fra criminali smargiassi e forze dell’ordine imbelli, c’è la sorpresa di un ottimismo che albeggia. E l’ottimismo ha il volto e le mani callose di Don Felícito: un bambino scalzo, abbandonato dalla madre, tirato su alla maniera dura da un padre devoto non al dio dell’amore ma ai lumi della mobilità sociale. Un uomo inflessibile che si toglie il pane di bocca per far studiare il figlio. Che poi a Piura non vuol mica dire andare all’università: ma imparare a guidare, apprendere un mestiere.

 

[**Video_box_2**]Di che cosa sia lastricata la strada della crescita economica non si sa, ma ogni blocchetto di pietra lo mettono personaggi come Don Felícito. Tipi più industriosi che brillanti, sono i self-made man della porta accanto. I comprimari del romanzo del boom, Sono i fedeli del culto della dedizione e del risparmio, spengono la luce quando escono da una stanza, si alzano prima di quanto potrebbero, la mattina, perché altrimenti si sentono in difetto. Vargas Llosa mescola tutti gli ingredienti che, in proporzione diverse, quasi invariabilmente segnano la vita di ciascuno di loro: il ricordo dell’antica indigenza, un genitore severo, l’orgoglio dell’“aiutati che il ciel t’aiuta”. Don Felícito non è perfetto, e si rivelerà, a conclusione della paradossale vicenda in cui resta impigliato, implacabile fino alla spietatezza. Ma guai che si allontani da un senso del rigore cui riconosce sovranità assoluta sulle sue azioni. Vittima di un ricatto, dichiara che “il punto non sono i soldi. Nella vita, un uomo non deve permettere a nessuno di mettergli i piedi in testa. Il punto è questo”.

 

Sono, si direbbe, valori vittoriani, che riaffiorano nella vita come tante di un micro-imprenditore come tanti, in un Perù che potrebbe essere la Brianza di cinquant’anni fa. Don Felícito si è liberato dalla povertà, senza venire meno a nessuna delle sue convinzioni. E lo stesso si può dire dell’altra eroina del romanzo, Armida, che compie con straordinaria eleganza il passo da serva a ereditiera.

 

L’agiatezza non è dissoluta per definizione, e anzi l’aspirazione al tepore borghese ben si concilia con una vita morale. Arricchirsi è una fatica, e la fatica per qualcuno è una vocazione. Per questo si può essere ottimisti.

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