L'utopia secondo Vargas Llosa: chi vuole la cerchi, ma il Paradiso è altrove
Futuro e passato, progresso e rimpianto, l’utopia è l’una cosa e l’altra
Futuro e passato, progresso e rimpianto, l’utopia è l’una cosa e l’altra. Che sarebbe stato, il socialismo, senza nostalgia? A inquietare l’Europa era lo spettro dell’accumulazione originaria, dei contadini trasformati a forza in operai salariati, le grandi città come verminai e il sogno di campagne linde, quiete, sempre uguali a se stesse. Dovendo scegliere due volti per l’utopia, Mario Vargas Llosa pesca nel suo Perù e nella grande repubblica delle intelligenze di cui è cittadino. Ecco la femminista Flora Tristan e suo nipote, il pittore Paul Gauguin, protagonisti di undici capitoli ciascuno de “Il paradiso è altrove”, e davvero per una volta nel titolo c’è tutto. La storia e la sua morale. Il percorso di Vargas Llosa non è troppo diverso da quello degli spiriti critici della sua generazione. Le simpatie comuniste in gioventù, l’entusiasmo per Castro, la disillusione e con essa il baratto fra Sartre e Aron. Ma se gli anni sparigliano le certezze, si può cambiare idea senza rinnegare il passato. Ammettere gli errori, e rimanervi affezionati.
Flora Tristan “non era intimorita dalla prospettiva di mettere in moto la macchina che in qualche anno avrebbe trasformato l’umanità, facendo scomparire l’ingiustizia”. Il lettore di Vargas Llosa ne resta rapito. Che coraggio, questa donna. Tiene continuamente allenato il suo sdegno, e la realtà gliene fornisce ampie occasioni. Punta il dito contro un ex operaio diventato “padrone”, dedito a spremer proletari identici a lui com’era pochi anni prima. Nulla di male, “se ogni mattina all’alba si affollano qui decine di uomini e donne implorandomi di dar loro lavoro”. Flora non capisce. Vede lo sporco, il tedio, la fatica e la violenza dei rapporti di produzione. Con il suo “Promenades dans Londres”, anticipa l’Engels de “La situazione della classe operaia in Inghilterra”. S’emoziona incontrando i saint-simoniani, ammira il falansterio di Fourier, disprezza il radicalismo quando esonda nel privato: gli uomini con le donne “copulano, come i maiali o come i cavalli”, nient’altro. Se in ogni teoria si nasconde un’autobiografia, nella sua c’è un marito terribile e rabbioso. Consacra la vita all’umanità e dispera degli uomini in carne e ossa. Persino degli operai: sordi alle sue parole, che dovrebbero cambiare il mondo, e invece “contagiati dai pregiudizi borghesi”.
Flora respira la povertà sin da piccola. Suo nipote Paul abbandona un’esistenza borghese, vuole “vivere al naturale, della terra, come i popoli sani”. Il sesso, prima alla periferia della sua vita, finisce per dominarla. Desidera sottomettersi alla natura, sfuggire al tempo della locomotiva, del telegrafo, delle Borse.
Non li uniscono soltanto i cromosomi. L’umanitarismo di lei, il solipsismo di lui, non sono privi di grandezza. Ma poi c’è il mondo di fuori, la realtà dove quando c’è un problema si prova a risolverlo, la società delle convenzioni che è anche decoro e non pura ipocrisia, una rivoluzione industriale che non è solo ingiustizia ma la più incredibile moltiplicazione dei pani e dei pesci della storia.
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