L'esercizio del potere, per Vargas Llosa, è sempre una relazione bilaterale
L’unica minaccia che il dottor Trujillo possa temere
L’unica minaccia che il dottor Rafael Leónidas Trujillo Molina, il Capo, il Generalissimo, il Benefattore, il Padre della Patria Nuova, possa temere viene dal suo stesso corpo. Non dagli americani, che l’hanno svezzato e ora lo tollerano a fatica; non dai vicini sudamericani, comunisti (Castro) e checche (Betancourt); né dai parassiti che lo circondano, a cominciare da quella moglie così vorace e dai figli, nomi d’opera e caratteri d’operetta. Il corpo è un nemico sottile, il solo suddito riottoso: tanto ferma è la stretta di Trujillo attorno alla Repubblica dominicana, quanto labile il suo controllo sulle proprie membra: sul sonno un tempo efficientissimo, sulla sudorazione che si poteva comandare, su una vescica insubordinata che macchia un’apparenza petroniana, su un fallo che non s’arrizza, oltraggiato da una ragazzina troppo ossuta, persino sull’incarnato che tradisce l’infame ascendenza haitiana – esorcizzata con il massacro del 1937, ma pronta a riaffiorare sul suo viso ogni mattina, prima che il trucco di scena l’oscuri.
E’ il possesso di sé l’unico limite al potere di Trujillo; e non c’è macchinazione che possa restituirglielo. Il degrado fisico è solo un riflesso, la corruzione della carne un abbaglio. Il Capo può sottomettere chiunque, ma non se stesso. Non lo toccano le soluzioni spicce appaltate a Johnny Abbes e le sofisticate costruzioni di collaboratori meno sanguinosi ma altrettanto spregiudicati. Men che meno lo possono coinvolgere le trovate con cui, in prima persona, tiene salde le redini di un’élite, poi di una città e poi di un paese. Le umiliazioni quotidiane, le visite coniugali – dove il visitatore è lui, ma la moglie è sempre di qualcun altro. Un padrone ha bisogno di un cane; e alla corte di Trujillo i cani non mancano, pronti a sacrificare famiglie e dignità all’apprezzamento volubile di quell’essere superiore, disposti a indicibili nefandezze per non perdere terreno nella considerazione di colui da cui tutto promana.
Così la rete si srotola, le clientele si diramano, le fedeltà si biforcano, fino a marchiare un popolo intero. Persino i più irriducibili avversari del regime finiscono per farsi travolgere: il sangue della rivolta ribolle privatamente, ma favori e ricompense imbrattano in pubblico. Anche Trujillo fa propria la lezione di etienne de La Boétie: non può esservi tirannia se non vi è chi sia disposto a tollerarla, a darle occhi, mani, voce, a farsene vittima e complice. Tanto che, quando il destino del caprone si compie, la melassa del suo potere continua ad avvolgere la repubblica, paralizzando – con la figura di Pupo Román – ogni ipotesi d’immacolata concezione di un nuovo ordine a Santo Domingo. La grandezza del Trujillo tratteggiato dal Nobel Mario Vargas Llosa nel suo “La festa del caprone” (2000) sta in questo: nell’illuminare il potere non come attributo personale di un personaggio spaventoso e irripetibile, bensì come relazione necessariamente bilaterale, persino ordinaria. Sarebbe sbrigativo giustificare l’acquiescenza al potere con l’illusione di goderne a propria volta; c’è un desiderio d’ordine, quasi una “vocazione masochistica” – come dice Urania all’inizio del romanzo – nell’essere a parte del potere. Il potere è “una trasfusione”, si accresce solo a fronte di una diminuzione corrispettiva. Per questo, Trujillo è l’unico individuo immune al potere di Trujillo. Un padrone ha bisogno di un cane, ma un cane ha bisogno di un padrone.
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