Sonny Rollins spiega cosa rimane della stagione che rivoluzionò il jazz
Il sassofonista tenore Sonny Rollins ha compiuto ottant'anni nello scorso settembre. E' uno dei pochi grandi superstiti della stagione d'oro del jazz. Gli esperti dicono che è sempre degno della qualifica di “Saxophone Colossus”.
Il sassofonista tenore Sonny Rollins ha compiuto ottant'anni nello scorso settembre. E' uno dei pochi grandi superstiti della stagione d'oro del jazz. Gli esperti dicono che è sempre degno della qualifica di “Saxophone Colossus” che gli venne data nel lontano 1956, quando licenziò uno stupendo lp con quel titolo, poi ristampato in cd. L'attributo gli si addiceva – e gli si addice – per la sonorità turgida e forte, ben riconoscibile fra gli altri maestri dello strumento, e per il fraseggio torrenziale unito alla tensione di continuare gli assolo all'infinito, se soltanto fosse possibile. Ho avuto occasione di parlare con lui, e confermo che nel dialogo Rollins smentisce l'impressione altera ed egocentrica che comunica a prima vista. E' consapevole che il suo capolavoro è contenuto nel cd “The Solo Album” della Milestone inciso dal vivo. Si tratta di un'ora di improvvisazione solitaria che egli offrì il 19 luglio 1985 ai fortunati e attoniti spettatori pigiati nel cortile del Museum of Modern Art di New York. Oggi Rollins dichiara che forse non lo saprebbe più fare, e che comunque non ci prova. “Per un sassofonista – aggiunge suonare da solo è anche una sfida fisica. Allora era importante sul piano storico e inventivo, adesso lo è di meno. Per me era un fatto naturale. Da ragazzo lo praticavo per ore di seguito, come se dentro di me avessi avuto l'accompagnamento di un contrabbasso e di una batteria. Ma ora, alla mia età…”. Non bisogna credergli: basti pensare a certe sue introduzioni solistiche di venti minuti. Poi, parlando del più e del meno, ecco una sorpresa imprevista. Rollins crede nella reincarnazione che per lui è un forte motivo di consolazione. Fissa un punto lontano e dice: “Ritroverò tanti amici. Soprattutto il mio coetaneo Clifford Brown, trombettista incantevole, un vero fratello con il quale ho collaborato fino a pochi mesi prima di Saxophone Colossus, quando lui morì a meno di 26 anni in un incidente automobilistico”. Proprio in questi giorni la Egea lo onora distribuendo in Italia una preziosa ristampa in cd della Solar Records, intitolata “Sonny Rollins Trio, The Shadow Waltz”, il cui originale risale al biennio 1957-1958. La proposta, che ottenne a suo tempo le famose cinque stelle della rivista americana Down Beat, è inestimabile. Contiene la storica Freedom Suite, la Suite della Libertà per sassofono tenore, contrabbasso (Oscar Pettiford) e batteria (Max Roach), venti minuti di musica composti da Rollins i cui suoni anticiparono le lotte degli anni Sessanta per la libertà dei neri d'America.
Theodore Walter Rollins, Sonny per la musica, nasce a New York il 7 settembre 1930, quando i suoi genitori si stabiliscono nel quartiere di Sugar Hill dove abitano musicisti quali Nat King Cole, Erskine Hawkins, Andy Kirk e Don Redman dai quali il bambino apprende l'amore per la musica, per cui frequenta l'Apollo Theatre di Harlem e inizia lo studio dei sassofoni, debuttando nel 1947 al sax tenore in gruppi di rhyhm'n'blues dei quali conserverà il gusto per il suono vigoroso. Decolla quasi subito: nel 1949 il cantante Babs Gonzales lo invita per la prima volta in studio di registrazione, poi collabora con Art Blakey, Bud Powell, Tadd Dameron, Miles Davis, Jay J. Johnson e nel 1956 raggiunge il quintetto di Max Roach/Clifford Brown. Piacciono ai colleghi la sua potenza sonora, l'originalità che lo pongono accanto ai grandi tenoristi Coleman Hawkins e John Coltrane, dai quali si distingue perché propone un altro prototipo. Rollins è un solista moderno, che mantiene reminiscenze tradizionali, predilezioni per canzoni nostalgiche e per i ritmi dei Caraibi. Ha inciso innumerevoli dischi. Il giornalista Francis Marmande ne esalta “le introduzioni protratte al di là delle attese, le citazioni incongrue, lo humour, le interpretazioni creative di pura generosità, quasi un viaggio infinito”.
Universalismo individualistico