George Michael e l'agonia della bellezza pop
Dopo un anno di lutti impressionanti, con la morte dell'ex cantante degli Wham! si dissolve un mondo che non siamo disposti a perdere, ma che faceva già parte del passato
La prima cosa che sorprende, ricordando George Michael, la popstar britannica di origini greche morta il giorno di Natale nella sua casa di Goring, Oxfordshire, è realizzare come a soli 53 anni d’età la sua figura avesse già assunto i crismi del rispetto ma anche del distacco di una figura del passato. Da una decina d’anni la carriera artistica di Michael si era rarefatta, tra annunci di produzioni che non vedevano mai la luce, ripubblicazioni di vecchie raccolte e rivisitazioni degli evergreen in confezioni monumentali e malinconiche, come nel caso di “Symphonica”, l’ultimo album del 2014. George era andato a fare compagnia ad altre venerabili stelle della musica del secolo scorso, che senza smettere di brillare per la purezza del loro talento hanno smarrito la collocazione nelle mappe artistiche del presente, simboli di un altro tempo, portatori di un altro ritmo e narratori di altre storie. Quelle raccontate da Michael, chi le ha amate al primo apparire, non ha mai smesso di portarle con sé, per il loro potere simbolico di un’epoca e di un lifestyle.
Era il 1982 e George, figlio 19enne del proprietario di uno dei mille ristoranti greci della periferia di Londra, si fa un nome nel vivacissimo mercato discografico con una raffica di singoli che in pochi mesi ne fanno la sensazione del pop d’oltremanica. Agisce in duo col compagno di scuola Andrew Ridgeley e si fanno chiamare Wham!, ma l’attrazione è lui, col sorriso smagliante, l’acconciatura fonata, i completini di satin iconizzanti la “freedom of choice” (short pants indossati leggiadramente, senza prendersi il disturbo di depilarsi…). I ragazzi delle discoteche del Regno Unito – tutti: quelli dei walkman ascoltati la mattina andando a lavorare e quelli con la fissazione del “trendy” – impazziscono per questo suono edonistico e zuccheroso, ammiccante e carico di testosterone. Come saette finiscono in testa alle classifiche “Wake Me Up Before You Go-Go”, “Careless Whisper”, il proto-rap di “Wham Rap! (Enjoy What You Do”), “Club Tropicana”, “Last Christmas”, sostenuti dai travolgenti live show dei Wham!, nei quali si canta, si balla e si celebra la giovanile sopravvivenza al tormento-Thatcher, con Dee C. Lee a fare da corista (onnipresente nella scena londinese del periodo, futura consorte di Paul Weller) e il fedele Andrew a fungere da spalla.
La band di Michael diventa la capofila della scena inglese del pensiero debole ed effimero, fiancheggiata da Culture Club, Duran Duran, Spandau Ballet. Sono gli anni di Live Aid e della trovata promozionale del 1985, quando i Wham! sono le prime star occidentali a esibirsi nella Cina che stava schiudendo le porte (c’è un grande doc sull’evento, firmato da Lindsay Anderson). Musica per film di Vanzina, colonna sonora di un momento di positivismo e ritrovata voglia di vivere e di una semplicità che stabiliva la nuova temperatura nel mondo del pop. L’ugola di Michael, parimenti al vibrato di Boy George, cantano l’epoca e i Wham! chiudono la parabola col memorabile concerto d’addio a Wembley nel 1986 (il vecchio Wembley: teatro di quei primi eventi globali che marchiavano un passaggio, al momento appena intuito).
George è pronto al decollo della carriera solista: “Faith”, l’album d’esordio del 1987 è una bomba sganciata al momento giusto. La gioia di ballare dei primi successi coi Wham!, è sostituita da una tensione soul, da un palpabile richiamo erotico, da un inno alla vita metrosexual, alle sue delizie e ai suoi pericoli. Sono canzoni per le spericolate notti newyorkesi morsicate dall’Aids, è il suono urbano delle contaminazioni. Il tour mondiale di “Faith” è un trionfo: George, col suo memorabile giubbotto di pelle nera, è la versione adulta del ragazzino ormonale degli esordi e la sua danza assume connotati metafisici come quella di Elvis 30 anni prima, perché in essa trova posto non solo la voglia di resistere alla piaga collettiva, ma s’avanzano aperte allusioni a un’identità sessuale che reclama riconoscimento. “I Want Your Sex” “Faith”, “Father Figure”, “Kissing a Fool” provocano l’acclamazione della critica e un successo divistico, dal quale Michael appare più disturbato che soddisfatto. Emerge la caratterialità di quest’uomo, più coinvolto dalla tensione artistica che dai riflessi della celebrità, la sua tendenza a isolarsi, la voglia di sancire la propria omosessualità. Il decennio d’oro di Michael, si conclude nel 1990 con “Listen Without Prejudice Vol 1”, secondo album solista e altro campione di vendite. Ma qualcosa si è rotto: George cerca privacy e tranquillità, più che luci e ammirazione. Nel ’91 arriva il memorabile duetto con Elton John – artista-padre di così tanta musica inglese – “Don’t Let the Sun Go Down on Me” ancora a Wembley. Poi un interminabile tramonto.
Michael ha solo 28 anni, ma il quarto di secolo che lo separa dalla morte sarà uno sconnesso percorso di sopravvivenza. Cominciano le guerre con le case discografiche, i guai con la legge, una serie di arresti (quello nel bagno pubblico di Beverly Hills lo spinge al definitivo coming out), assurdi consumi di droghe, una declinante condizione fisica. Niente di memorabile, se non il suo essere l’incarnazione di uno stile che appartiene a un’epoca superata dal nuovo mondo, per come lo conosciamo. E un’apparizione, nostalgica ma solenne, durante la cerimonia di chiusura delle belle Olimpiadi di Londra. Capitava ancora di fermarsi a mordersi le labbra quando da una radio partiva il beat di “Faith” e la sua apparizione da ospite di un grande tour, per l’immancabile duetto, meritava un’attenzione affettuosa. Michael però sprofondava nel “come eravamo” del suo tempo. Questo brusco commiato ora lo colloca là, tra quelle illusioni, come colui che seppe perfettamente metterle in musica.
E comunque, sarà l’età tutt’altro che decrepita di Michael, sarà che arriva all’epilogo di un anno punteggiato da un’impressionante serie di lutti, ma la sensazione è che si stia dissolvendo qualcosa che non siamo pronti a perdere e che difficilmente sarà sostituibile. Chi è in là con l’età ricorda come qualcosa del genere sia già capitato nei territori della cultura popolare, allorché una nutrita rappresentanza delle vere star di Hollywood passarono a miglior vita nel giro di pochi anni, spopolando l’immaginario di chi era cresciuto nutrendosi dell’epoca classica dei grandi studios. Un vuoto che si rivelerà impossibile da riempire, per il motivo più elementare: nel frattempo le cose sono cambiate e, parlando di film, la dipartita dei divi è coincisa con l’avvento di una cinematografia diversa, meno canonizzata, meno industriale, più moderna. Poi, quando nuovi divi sono spuntati e il pubblico ha cominciato ad apprezzarli, il rapporto con loro, col loro mito, con l’impalpabile mistica che li avvolgeva e attribuiva loro un dato di eccezionalità, è stato diverso, meno sacrale e misterioso.
Per la musica le cose vanno allo stesso modo: c’è stato un momento, che circoscriviamo tra la metà degli anni Sessanta e la seconda parte degli Ottanta (col travolgente antipasto del rock’n’roll, ma solo negli Stati Uniti), in cui l’industria musicale è riuscita a sintonizzarsi perfettamente coi bisogni culturali e la sete d’identità delle nuove generazioni. I musicisti, i loro prodotti – canzoni, dischi, concerti – e tutto il relativo indotto consumistico in quel lasso di tempo hanno rappresentato un bisogno primario per milioni di giovani, grazie alla rappresentatività assunta nei loro confronti. In sostanza ne interpretavano i sogni e i desideri, dandone una descrizione intensa e poi espandendo il tutto sotto forma di sentimenti partecipativi, nonché di estetica, ammirata e imitata. Le popstar come nuovi dei. Come prima di loro lo erano stati guerrieri e poeti, rivoluzionari e intellettuali, in fondo essendo un po’ di tutto ciò. Gli anni delle grandi tendenze, del loro sovrapporsi e contrapporsi – rock e folk, glam e punk, dark e metal… – generavano legioni di appassionati seguaci in cerca di qualcosa d’intenso e di artistico in cui riconoscersi e nel quale dissolversi, in una sequela di rituali: la sospirata uscita di un disco, la scoperta della nuova canzone perfetta, il giorno del concerto tanto atteso, certe parole e certi suoni che si sono incise indelebilmente nell’anima di ciascuno di noi. Tutto ciò contava sullo strapotere incosciente della gioventù e sugli anni verdi di protagonisti e consumatori, che erano protagonisti a loro volta, perché solo la politica poteva essere (solo in certi luoghi) un’attività più coinvolgente e collettiva di questa. Dunque, costruendo l’enorme tempio non si è pensato a quali, un giorno o l’altro, sarebbero stati i costi di manutenzione. Che sono quelli coi quali stiamo facendo i conti adesso, e che si stanno rivelando salati, sebbene la moneta sia solo quella della depressione delle nostre psicologie.
Il cordoglio dei fan del cantante fuori dall'abitazione dove è morto l'ex leader degli Wham! (foto LaPresse)
Muoiono copiosi e continueranno a morire, gli eroi di quel vitalismo costituito, senza compromessi, dal mondo del pop in tutte le sue declinazioni. Nel quale proprio la gioventù e i suoi annessi – l’erotismo in testa e poi gli ideali e le passioni – erano valori fondanti. E noi, che pure siamo consapevoli di come siano cambiate le cose, chessò dal 1975 a oggi, dalla battaglia per il divorzio al governo Renzi, pure abbiamo continuato a dare per scontato che il tempo non fosse una variabile attiva nella rappresentazione dei nostri miti. Album e festival, reunion e indimenticabili notti al concerto, sembravano correre eterni, come fossero fatte di kryptonite.
Adesso, a forza di lutti, capiamo che non è così. Presto finiranno gli articoli e i servizi tv che ogni volta elencano l’inaccettabile lista dei morti pop dell’anno. La lunga agonia della bellezza, rappresentata dall’incanutirsi della scena rock e dalla tenace resistenza in scena di gente prima oltre i 50, poi i 60, adesso arroccata sui 70, avrebbe dovuto prepararci agli eventi, sottolineando come i rimpiazzi non fossero altrettanto efficaci, non perché meno bravi, ma perché cresciuti vedendosi attribuire una delega di rappresentazione assai più limitata. Diciamo che gli interessi in circolo nelle ultime generazioni sono diversi, ed è naturale che sia così. La musica ha il suo posto, ma il nuovo David Bowie non diventerà importante quanto Che Guevara. Le mode si trasmettono attraverso altri canali, l’industria musicale non somiglia al dinosauro di una volta, impressionante ma estinto. Le major, le etichette, le star, i volti nuovi in orbita: era il Novecento, ragazzi. Se nei primi 16 anni del millennio successivo ci siamo occupati di chiuderlo negli scatoloni, ora va portato in soffitta.
Poi ciascuno, nel segreto della sua cameretta, potrà continuare ad adorare i propri idoli. Ciascuno potrà ballare “I Want Your Sex” davanti allo specchio. Suonando l’assolo con l’air guitar. Ma è una questione privata. Esporci in lutto permanente perché un’altra popstar se n’è andata è anacronistico e un po’ ridicolo. Non rispetta con la dovuta saggezza, il fatto che, semplicemente, così vanno le cose.