Una partitura del primo quartetto d'archi di Erwin Shulhoff

Il Foglio protocollo - Nota di classe

Onorare davvero la Giornata della Memoria ascoltando le partiture nate tra le baracche di Auschwitz

Mario Leone

I lieder di Viktor Ullmann, l’operetta Brundibar di Hans Krása, la musica da camera di Erwin Shulhoff, tutti musicisti morti nel delirio nazista

C’è un momento assolutamente speciale nella vita di un prof: quello in cui leggi negli occhi di un tredicenne, in classe, lo stupore. Assai di rado la meraviglia è tra i banchi di scuola, eppure scorgere quell’attimo di gratitudine mista a incomprensibile gioia vale, senza retorica, più di tanti bonus sul merito. E’ quello che succede nelle mie ore di musica a scuola nonostante la materia non sia tra le più considerate. Già ascoltando Eine kleine Nachtmusik di Mozart o l’Inno alla gioia di Beethoven, i ragazzi solitamente restano di stucco poiché riconoscono un brano composto duecento anni prima. C’è sempre però un momento in cui i ragazzi vibrano tutti. Si fermano, riflettono, chiedono. Accade quando si parla di musica nei campi di concentramento. Far ascoltare, sfogliare le partiture nate tra le baracche di Auschwitz o nella piccola fortezza di Terezin rende la questione seria. I ragazzi non fiatano più.

 

Si rendono disponibili verso quella musica “complicata”, quel repertorio del Novecento per molti incomprensibile: serie dodecafoniche, particolari accostamenti timbrici, testi in yiddish. Musiche a volte violente per sonorità e soluzioni armoniche. I lieder di Viktor Ullmann, l’operetta Brundibar di Hans Krása, la musica da camera di Erwin Shulhoff, tutti musicisti morti nel delirio nazista. I ragazzi vivono di passioni e sono attratti da chi ha passione. Quando questa non declina neanche nei campi di sterminio l’interesse s’amplifica. Non c’è partita col sentimentalismo tipico della Giornata della memoria celebrata a scuola, sempre più uno sterile rito (il minuto di silenzio quando suona la campana) svuotato di vero significato. Ai ragazzi interessa la vita e nei campi di concentramento questa c’era. Artisti, musicisti, poeti, ballerini. Ma anche un semplice sacerdote come Padre Kolbe che muore cantando. La risposta al male diventa il bene, il bello.

 

 

Questo rapisce i ragazzi. “Devo sottolineare che Theresienstadt è servita a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali” diceva il compositore Ullmann. Nei campi di concentramento esistevano orchestre, gruppi da camera, pianoforti a coda dislocati in diversi punti o strumenti “poveri” ottenuti con materiali di fortuna. Si suonava per i vivi, per i morti e per chi era condannato a morire. Lo si faceva anche per propaganda. I musicisti e i compositori presenti nei campi non smisero mai di produrre musica nel dopolavoro, durante le brevi notti insonni. La musica si scriveva su sacchi di juta, ritagli di stoffa, carta igienica e su qualsiasi altro supporto di fortuna ritrovato nelle infermerie e nelle baracche dei campi, poi nascosto accuratamente e molte volte anche dimenticato. Nacque così un repertorio sconfinato (si contano circa quattromila opere prodotte dal 1933, anno di apertura del primo campo di lavoro) e ancora, purtroppo, poco eseguito, per voce, gruppi da camera e strumenti solisti. La musica come l’arte può accadere ovunque, come annotava sui suoi diari la scrittrice di origine ebraica Etty Hillesum: “Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato”.

 

Me l’ha scritto, a suo modo, il dislessico della classe, l’alunno con il PDP, quello che utilizza il pc per scrivere, altrimenti commetterebbe gli errori di ortografia di un bambino di scuola elementare. Per alcuni è l’indolente del gruppo, per altri non esiste. Alla mia domanda, “Perché secondo voi gli artisti continuano a comporre nei campi di concentramento?”, una delle risposte più diffuse è stata quella di dimenticare quello che accadeva attorno. L’alunno con il PDP scrive (senza errori di grammatica perché corretti automaticamente da Word): “Perché anche in un posto brutto ci può stare qualcosa di bello”. Ora non so se questo ragazzo ha letto Italo Calvino. Sicuramente ha capito molto più lui, dell’arte, di Theodor Adorno e questo stupisce anche un prof di musica. 

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