Il tesoro dell'“Andrea Chénier” è nascosto nelle didascalie

Antonio Gurrado

È un'opera per lettori tanto quanto è opera per spettatori, e il suo senso va cercato fra parentesi, in corsivo, nelle parti che nessuno canta

Il tesoro dell’“Andrea Chénier” è nascosto al pubblico perché si annida nelle didascalie che Illica volle riservare solo ai più attenti lettori del libretto. La scena dell’ingresso di Robespierre coi rappresentanti della nazione ne è un esempio preclaro: “Tutto il torrente dell’opinione pubblica è là ad aspettare l’idolo dell’opinione pubblica, la bussola del patriottismo. Eccoli i rappresentanti della nazione! L’entusiasmo della folla è alla maggior parte di questi uomini indifferente; sanno che non è per loro, che un uomo solo ha ora quello che da tanti secoli fu privilegio di re. E Robespierre lo sa, quanto loro, ed è per questo che egli sa essere solo in quella folla”. Quanto di queste finezze psicologiche riesce a trasparire dalla più sofisticata messa in scena? Foss’anche la metà, è chiaro che “Andrea Chénier” è opera per lettori tanto quanto è opera per spettatori, e che il suo senso va cercato fra parentesi, in corsivo, nelle parti che nessuno canta.

 

La svolta stessa della trama avviene sotterranea. Il motore non è il protagonista eponimo, poeta innamorato piuttosto piatto, bensì Gérard, l’ex servitore dei conti di Coigny fattosi esecutore rivoluzionario. In pieno Terrore, nel 1794, dopo essere stato ferito dallo stocco di Chénier e dopo essere ciò nondimeno riuscito nobilmente a non rivelare il nome dell’assalitore mentre le forze gli venivano meno, Gérard al riaversi perde ogni desiderio di pacificazione. Illica scrive parole che sul palcoscenico restano mute: “Quest’uomo che moribondo perdonava al suo feritore, colle forze vitali sue sente rinascere soprattutto l’odio. Il corpo, questo adoratore della vita, si ribella sempre contro i generosi slanci dell’anima”. Senza queste didascalie che determinano l’azione, a chi ascolta senza leggere la trama non può apparire che meccanica.

 

L’inizio e la fine contengono altrettante indicazioni segrete, decisive. All’alzarsi della tela, la prima didascalia del quadro primo spiega che “dal giorno che Gérard fu sorpreso a leggere Jean Jacques Rousseau e gli Enciclopedisti, non ironia o servizio più umile o più basso gli è risparmiato”; è un evento pregresso che resta celato agli occhi del pubblico, questo del ludibrio del servo autodidatta, e che causa un implicito attrito con la successiva scena madre. Siamo ancora nel 1789, ancien régime. Durante un ricevimento dai Coigny, Gérard introduce uno stuolo di straccioni affamati che, per amor di contrasto, presenta agli invitati come “Sua Grandezza la Miseria”. Ebbene, dal moderato Voltaire al drastico La Mettrie, non c’è illuminista che avrebbe approvato il gesto di Gérard; non c’è illuminista che avrebbe esitato a tacciare di plebaglia gli straccioni e a cacciarli dal civile consesso. Perfino Rousseau, che nel “Contratto sociale” escogitava come truccare le elezioni per controbilanciare il suffragio universale, sarebbe rimasto persuaso che i lumi – “le lumiere”, col francesismo della contessa di Coigny – dovessero propagarsi fino agli infimi strati. Gérard ha letto senza capire.

 

Per questo non capisce nemmeno quando, all’ultimissima didascalia cinque anni dopo, si ritrova in mano un biglietto di Robespierre che giustifica l’uccisione di Chénier argomentando: “Anche Platone bandiva i poeti dalla sua Repubblica”. E’ il calco di un documento storico, il commento alla coeva condanna del chimico Lavoisier: “La Repubblica non ha bisogno di scienziati”. L’incredulità di Gérard che a sipario chiuso resta col biglietto in mano, certo che non potrà riportare in vita Chénier né essere mai ricevuto da Robespierre, è l’improvviso accorgersi che quegli Enciclopedisti e quel Rousseau che aveva letto da giovane non sono serviti a nulla: perché lui non li ha capiti e perché i rivoluzionari non hanno voluto capirli. Sotto la superficie melodrammatica dell’infelice storia d’amore e morte del poeta Chénier, che commuove gli spettatori e li fa applaudire, resta rinchiuso in Gérard il rovello di ogni lettore, prigioniero di didascalie mute: l’aver creduto, l’aver frainteso.

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