I stil am, sono ancora vivo
Intervista al maestro Jeffrey Tate, genio musicale con la spina bifida
È come se attraverso la musica cercasse di ristabilire l’eguaglianza perduta e impossibile. A venticinque anni Jeffrey Tate è diventato medico. A trentacinque era un direttore d’orchestra. A quarantacinque anni ha assunto la guida della Royal Opera House di Londra. Tate è uno dei più grandi musicisti del nostro tempo. Ma non può dirigere in posizione eretta, la spina bifida lo costringe a stare seduto. Tate è un po’ Yitzhak Perlman, uno dei più rinomati violinisti viventi che a causa della poliomielite deve aggrapparsi alle stampelle per camminare, e un po’ Michel Petrucciani, il folletto del jazz che veniva preso in collo nel tragitto tra il retro palco e il pianoforte. Oggi Tate è direttore musicale del prestigioso Teatro San Carlo di Napoli.
Una compagnia di assicurazioni gli aveva dato da vivere quarantotto anni. Jeffrey Tate ha superato da tempo quella soglia fatale, nato sessantacinque anni fa a Salisbury, Inghilterra. A tre anni la madre lo porta da uno specialista, Jeffrey aveva i piedi piatti e soffriva di una grave forma di disabilità spinale. In gergo medico si chiama spina bifida. Fin da piccolo mostra un talento e un amore innato per la musica, lui dice che forse deriva dal nonno materno che era un grande amante dell’opera. A cinque anni inizia a prendere lezioni di piano e a set- te entra nel coro della cappella di San Thomas a Bourne. Con la sua voce bellissima da soprano, Jeffrey diventa la stella del coro. C’è anche il teatro fra le sue passioni, predilige i ruoli femminili, “così potevo nascondere il mio corpo sotto abiti lunghi”.
Con il tempo l’handicap si aggrava, la cifosi associata a scoliosi lo rende sempre più sofferente. A otto anni Tate viene operato per prevenire la paralisi, tre mesi costretto alla totale immobilità. “In ospedale mi sentivo come in prigione, c’era un padiglione, sembrava la terra promessa. Mi dissero che sarei riuscito a raggiungerlo. Così un giorno di pioggia ce la feci, fu un’indimenticabile sensazione di successo”. In ospedale Jeffrey ci tornerà a dodici anni, per sottoporsi a un’operazione ortopedica che lo avrebbe salvato dalla carrozzina. Una volta a casa acquista il primo grammofono. Sapeva di avere un debito verso la professione medica. A diciotto anni viene ammesso alla celebre facoltà di medicina dell’Università di Cambridge. Organizza il coro, legge Shakespeare e Ibsen, impara ad amare la vita. Ma vuole risolvere il problema della sua gamba inutilizzabile. “Un medico mi consigliò di amputarla sotto il ginocchio. Ero d’accordo ma non volevo svegliarmi nel cuore della notte e pentirmi. Ho avuto fortuna. Un tecnico dell’ospedale mi ha dato un sostegno”.
Il debutto come musicista arriva nel 1956, con una storica interpretazione di Gian Carlo Menotti. Il maestro, presente in sala, alla fine dello spettacolo va a salutarlo. Tate gli spiega che vuole fare il medico. “Tu puoi medicare le anime con la musica” gli dice Menotti. La carriera di Tate è costellata da un successo dietro l’altro. Nel 1976 è assistente del grande Pierre Boulez a Bayreuth per il centenario del Ring di Wagner e nel 1978 ha esordito all’Opera di Göteborg con la Carmen. Negli anni Ottanta è direttore al Covent Garden di Londra. Poi l’Orchestra Filarmonica di Berlino, la Filarmonica di Los Angeles, l’Orchestra di Israele, e le orchestre sinfoniche di Boston, Cleveland, Toronto, Montréal.
Jeffrey Tate ha molti soprannomi. Il migliore di tutti è “eterno amateur”. È un uomo vitale e fatale, la disabilità per lui è come un esilio che lo ha liberato, Orfeo impacciato ma rigoglioso, pieno di gioia di esistere e forte del “sorriso che irride” di Samuel Beckett. Con Tate parliamo di arte e di handicap, di speranza e di finitudine. E anche di aborto, perché oggi con la sua disabilità avrebbe soltanto un dieci per cento di possibilità di scampare alla selezione prenatale.
“Non so cosa sia la disabilità in generale, posso dirle cosa rappresenta per me. Ho sempre avuto una grande difficoltà a confrontarmi con i miei simili fin da piccolo, loro mi guardavano diversamente, per i miei arti, la mia schiena, la mia postura. Mi sentivo messo da parte, non facevo sport, mi piaceva stare con gli adulti, ero come un bambino cinese in una classica scuola inglese per bianchi. Un bambino deforme era qualcosa da rifiutare. Da piccolo sono stato ricoverato per sei mesi in ospedale, a quel- l’età sei mesi sono come sedici anni. Mi sono isolato dal resto del mondo, l’arte mi ha aiutato in questo. Perché l’arte mi ha insegnato a non essere fisicamente parte di questo mondo. Sono diventato meno convenzionale”.
Quando parla, Tate è puro amor fati. “Ho sempre avuto paura che la mia forza fisica potesse scomparire. In un certo senso questa paura è positiva. Ho un desiderio frenetico di fare esperienza delle cose”. Il maestro sa che oggi il novanta per cento dei bambini con spina bifida non vede la luce. “Io sono ateo, non ho convinzioni religiose né credo in una divinità, direi che sono un cinico. Sono un classico liberal englishman. Ma proprio per le mie convinzioni di liberal sapere che non sarei qui forse se mia madre avesse avuto a disposizione le tecnologie neonatali di oggi è stato uno shock. Un vero shock. Non sarei nato se mia madre avesse detto: ‘Non voglio questo bambino’. La mia disabilità è stata scoperta da loro sol- tanto quando ho iniziato a camminare. Io ritengo l’aborto per bambini con spina bifida assolutamente non necessario. Io alle donne che aspettano un bambino con spina bifida, che sono poste di fronte a questa grande responsabilità, cercherei di parlare, di spiegare a quelle madri in difficoltà che i loro bambini possono fare grandi cose nella vita, possono essere davvero significativi”.
Tate dirige Kasbah, che in Inghilterra riunisce i malati di spina bifida. “È stato questo che mi ha spinto ad accettare la presidenza di una organizzazione per malati di spina bifida in Inghilterra, volevo che loro sapessero che un uomo di grande successo era anche disabile. I still am. Io sono ancora qui. Anche se non ho mai perso la sensazione di essere nel posto sbagliato. Il mio successo poteva essere di aiuto a persone nella mia stessa condizione. Dovevo offrire loro qualcosa. Io non sono disabile come possono esserlo altri, il mio trattamento medico è stato molto buono, sono stato fortunato e oggi non ho bisogno della carrozzina. Ma loro avrebbero pensato, ‘abbiamo un presidente con questa malattia e che ha avuto un grandissimo successo nella vita’”.
Un rapporto corre fra il Tate medico e il Tate musicista. “Molto tempo fa decisi di fare il medico. La medicina per me è stato un modo per capire l’umanità. Si diventa medici per aiutare le persone. Io dirigo ottanta persone oggi in un’orchestra e la medicina mi ha aiutato a capire l’essere umano. Sono passati quarant’anni, ma quegli studi mi sono serviti”. Difficile comprendere dove Tate ricavi tanta energia. “La mia forza la traggo forse dai miei geni, la mia vitalità è genetica, i miei genitori erano persone forti, robuste, avevano una grande energia. Nei miei geni c’è parte della loro forza”. Il grande critico letterario George Steiner ha scritto che la musica ci riporta alla casa dell’origine dove non siamo mai stati. “Bellissimo e vero. Sono d’accordo con Claude Lévi-Strauss, la musica è il mistero supremo delle scienze dell’uomo. Io non ho imparato ad essere un direttore d’orchestra. La musica non si impara, accade, non mi chieda come né perché. La musica non è intrattenimento, è altro. Ha che fare con la filosofia, con la forma del mondo. Il senso di una creazione ordinata è inerente non soltanto alla musica, ma alla sua realizzazione. Ad esempio, Gustav Mahler per me è un grande problema: il suo dolore è troppo evidente, e io penso invece che l’arte deve trasfor- mare tutto, non mostrarlo, cambiare il dolore in gioia, in luce. Una parola, una sentenza, un momento in musica può dissolvere la paura della morte”.
Il grande direttore d’orchestra Otto Klemperer, emigrato negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali di Hitler, negli ultimi anni dirigeva seduto a causa di una paralisi che lo aveva colpito nel 1939, in seguito ad un intervento chirurgico per un tu- more al cervello. “Ricordo quando tornò a Londra per dirigere dopo l’incidente che lo aveva quasi incenerito. Fu la più galvanica performance della Nona di Mahler. Dimostrò che la carne non aveva potere su di lui. Non cercò di alleviare la propria condizione di tortura. Sono affine alla visione di Klemperer. La musica riguarda anche la fine dell’esistenza. È romantica e ottocentesca l’idea che vi sia una relazione fra musica e sofferenza, ma per me il dolore è stato molto fruttuoso, la disabilità ha agito come un fuoco raffinatore. La musica si occupa di rabbia, angoscia, dolore e sofferenza. Mi definisco una sorta di pessimista positivo. Fin da piccolo ho imparato a vedere il lato buio delle cose, quindi mi sorprende ogni volta che le cose vadano per il meglio. Ma nutro ancora una profonda paura di non esserci più”.
A sentirlo parlare tornano in men- te le parole di Mozart morente: “Grazie alla potenza del suono noi procediamo attraverso l’oscura notte della morte”. Tate ha impresso nella voce quel sigillo di solitudine che accompagna ogni grande musicista: “È straordinario ciò che può fare la musica. Una volta ho avuto un attacco, il dolore era così forte che pensai che quella notte non sarei riuscito a con- durre il Flauto magico. Ma quando la musica ebbe inizio, dimenticai il dolore. Non avrei mai immaginato di poter condurre un’opera lunga come il Parsifal, che anche nei momenti di suprema castità è profondamente sensuale”.
Un anno fa il cuore di Tate aveva smesso di battere: “I medici del Policlinico di Napoli mi hanno salvato per miracolo, mi hanno resuscitato. Ero collassato. Praticamente morto, non esistevo più. Sono stato venti giorni nel reparto di cure intensive. Ho sempre avuto paura di morire. Per il futuro adesso sogno soltanto di poter continuare a fare musica, voglio restare ancora un po’ in questo mondo che amo. È meraviglioso svegliarsi ogni mattina. I still am”.