L'ultimo "Rosenkavalier" di Renée Fleming, tra whisky e brindisi al futuro
Il ritiro dalle scene della grande cantante lirica americana dopo un concerto trionfale nella sua New York
Per fortuna abbiamo deciso di attraversare il parco a piedi, da stamattina Manhattan è un grande ingorgo e l’unica oasi di tranquillità è proprio questa. Tutta colpa della pioggia e di Donald Trump. Ha deciso di tornare in città proprio oggi, è la prima volta da quando è stato eletto presidente e a New York ci sono blocchi e manifestazioni ovunque e la metro sembra non avere voglia di andare da nessuna parte. A dirla tutta siamo più interessati alle azalee che in questi giorni fioriscono attorno al Pond e ai tulipani che sono così tanti e colorati che sembra di stare in Olanda. D’altra parte al principio questo sperone di basalto si chiamava New Amsterdam e nessuno avrebbe immaginato che sarebbe andata a finire così. Lo dice anche una vecchia canzone: se cambi nome a una città, rischi di perdere un appuntamento. Il nostro è per le sette di sera al Met e non abbiamo alcun dubbio su dove si trovi, l’hanno spostato al Lincoln Center da cinquant’anni, prima stava sulla Broadway ma erano i tempi dei grandi direttori di inizio secolo e poi di Caruso, di Toscanini, della Tebaldi. Il nuovo Metropolitan ha aperto l’8 settembre 1966 e sono qui per rivederlo con mia madre, che c’è stata esattamente mezzo secolo fa. La portò mio padre in viaggio di nozze e andarono a vedere i due grandi Chagall commissionati apposta per il foyer. “Si sentiva ancora il profumo di pittura”. Rispetto a quel giorno non è cambiato quasi nulla, la piazza in travertino, la fontana illuminata, le grandi arcate che fanno pensare a un tempio. Le ho viste in così tanti film che sembra quasi di tornare alla scuola elementare. E’ un meccanismo perfetto, il sole tramonta e i grandi fiocchi di luce si illuminano oltre i vetri. Entro nel foyer, appoggio una mano sul velluto rosso che sembra ricoprire ogni dettaglio e quasi mi manca il fiato, questo non è un luogo come un altro, è il santuario di Leonard Bernstein, la casa di James Levine, il teatro d’opera più frequentato al mondo e stasera siamo qui per l’ultimo “Rosenkavalier” di Renée Fleming, newyorchese di Rochester, grande diva del Novecento e da sempre un’eroina del Met. “Il Cavaliere della Rosa”, basta il titolo a rinnovare l’incanto. Esiste un’opera che parla, più di questa, dello scorrere dei giorni? “La Marescialla” è uno dei suoi ruoli più importanti, accanto a Rusalka, a Desdemona e a Manon e certo non può esistere un addio migliore. “Non puoi fare nulla contro il passaggio del tempo”. Leontyne Price, sua maestra e suo vero mentore, si era ritirata dall’opera proprio alla sua età. Non vuole che qualcuno possa dire: “Ah se avesse smesso prima”. Ci guardiamo attorno, c’è grande attesa. Siamo così euforici che ci fiondiamo subito al bar e scopriamo all’istante che a New York le alternative sono due, champagne o whisky con ghiaccio. Ci sembra un segno di grande civiltà, questo luogo è un fiero baluardo contro i massimalismi d’ogni provenienza e non c’è nulla che faccia bene quanto la libertà. Il pubblico è newyorchese fino al midollo, ci sono uomini in smoking e donne in lungo, ragazzi in blue jeans, alcuni turisti e molti melomani, li riconosci da come tengono il libretto, dagli occhialini, da quello sguardo indifferente verso tutto e tutti, stanno già pensando alla Corte di Vienna e alla casa di Faninal e a cosa si sarà inventato Robert Carsen per trasporre il “Rosenkavalier” dal 1740 ai primi anni del Novecento, quando Richard Strauss l’ha scritto, negli ultimi fasti della secessione viennese, prima della Grande guerra. Era il 1911 e proprio in quell’anno Gustav Klimt spediva a Roma, per le celebrazioni dell’Unità d’Italia, Le tre età della donna. Non poteva sospettare che non sarebbe più tornato. Mi piace immaginare che sia un ritratto della Marescialla. La principessa di Wardenberg. Lei, la donna del “tutto si disfa, come nebbia o sogno”, ci accoglie nella sua stanza, su un letto a tre piazze con Octavian tra le braccia. “Quinquin! Mio bimbo!”. Le pareti sono di damasco e tappezzate di ritratti di Francesco Giuseppe, ben più numerosi dei poster di Gilles Villeneuve nella mia cameretta da bambino. Anche Gilles era velocissimo ed esuberante e innamorato della vita, come Octavian, che a diciassette anni pensa solo a conquistare il mondo e a vivere d’amore per una donna bellissima e matura. E’ un piccolo Macron, annusa le mutande della Marescialla, beve a canna la cioccolata calda, è impertinente e lussurioso. Si rotolano come dalle dune di “Zabriskie Point”, sembra tutto morbidissimo ma è duro parquet a losanga. Le dorature tradiscono la patina del tempo. “A un tratto non sentiamo che lui. E’ dentro di noi. Scorre silente, come una clessidra”. La Marescialla capisce che è ora di lasciare a Octavian la possibilità di amare, è lui che dovrà portare la rosa d’argento per dichiarare a Sophie, la figlia di Faninal, l’amore del Barone di Lerchenau. Fremiamo per l’attesa del gran momento ma arriva il primo intervallo e uscendo dalla sala pensiamo allo stato d’animo della Marescialla, la donna più generosa del mondo, che rinuncia all’amore per il bene del suo amato. E’ lei a propiziare la nuova unione e non è certo un caso se Renée Fleming è nata a San Valentino.
“Sembra un angelo dal cielo”
"Il Cavaliere della Rosa", basta il titolo a rinnovare l'incanto. Esiste un'opera che parla, più di questa, dello scorrere dei giorni?
Siamo pronti per un’ondata di champagne ma incontro un vecchio amico che ha l’aria di essere passato sotto un tram, se non fosse che a New York il tram non c’è nemmeno. Non mangia, non parla, vive d’aria. La sua ragazza l’ha mollato e allora gli offro un drink a base di whisky e caffè, di quelli forti che rivoltano lo stomaco, così potrà dimenticare la sua troppo giovane ex fidanzata, visto che la storia è finita per sempre, questa per lui deve trasformarsi in una liberazione. Beviamo e sappiamo che il meglio deve ancora arrivare. E’ sempre così, infatti poco dopo arriva il momento della bellezza assoluta, quando Octavian si presenta vestito di meraviglioso argento. “Sembra un angelo dal cielo”. Avanza in una stanza smisurata, il pavimento è bianco e nero, c’è un fregio in stile ellenistico ma sono scene di guerra, nella visione di Carsen la casa di Faninal è una fabbrica d’armi e infatti portano un cannone. E’ il Big Bertha, l’arma più poderosa che sia mai stata pensata, più potente del missile lanciato dagli americani il mese scorso, quello che sconfiggerà il nemico in un colpo solo, anzi non servirà sparare perché ne sarà intimidito, ma a noi sembrano le sculture di Pino Pascali che Salvatore Ala aveva esposto negli anni Ottanta a poche strade da qui, senza venderne nemmeno una. Il “Rosenkavalier” porge a Sophie la rosa d’argento, ha la fragranza di una vera rosa e il profumo di paradiso. Basta uno sguardo e scocca la scintilla e allora ripensiamo alle parole della Marescialla che non ha potuto fare nulla per fermare il tempo. “Qualche volta di notte mi sveglio e giro per casa a fermare tutti gli orologi”. All’improvviso la stanza diventa blu, il colore della solitudine ma per Octavian è il momento dell’amore, capisce che non potrà vivere mai più senza Sophie ed è così anche per lei. “Mai un giovane cavaliere, da vicino o da lontano, mi è piaciuto quanto lei”. Arriva il secondo intervallo. Offro un bicchiere alla mia vicina di poltrona, un’urbanista che si occupa di Aspen, settemila anime di ricchissimi americani nel bel mezzo del Colorado. Dice che Trump non è arrivato al 25 per cento. Dove mancano gli operai gli è andata piuttosto male. Anche lei si chiama Sophie e per qualche strana ragione è interessata alla periferia di Caracas, dove hanno pensato a una funivia per collegare le favelas ai quartieri ricchi. A volte gli opposti si incontrano. Peccato che ad Aspen non ci siano poveri da collegare. E’ pure carina ma non intacca di una virgola i miei veri desideri, che si nascondono a Milano, dalle parti del Conservatorio. Non distrazioni. Ci prova Robert Carsen con la scoppiettante regia del terzo atto, ci ritroviamo in un bordello con culotte e dipinti lascivi, si spengono le luci e appaiono donne nude nelle vetrine. Si contorcono possedute dal peccato. E’ un “Rosenkavalier” ad alto tasso di erotismo. Si incrociano gli eventi, le amanti e i tranelli, fino a quando il volgarissimo Barone viene smascherato da troppi figli e peccati. Gli cade pure il parrucchino e non riesce a ritrovarlo. Arriva la Marescialla con un grande manto nero a strascico e si siede sul letto. E’ arrivato il momento estremo della Fleming. Quando inizia a cantare il “Sono così tutte le cose al mondo” sappiamo che è finita e il teatro resta con il fiato sospeso. Tutto il resto è solo l’attesa per il finale, cioè l’amore di Octavian per Sophie. L’unione viene fissata con un lampo di magnesio ma appaiono sul retro l’esercito e i cannoni, tutto questo durerà ben poco, irromperanno presto i tamburi e le sirene di guerra e questa pace sarà finita. E’ un trionfo, il pubblico esplode in grandi applausi per Brück, per la Garanča, per il direttore Sebastian Weigle, ma quando esce la Fleming si alzano tutti, sono ottomila mani, è il teatro d’opera più grande al mondo, almeno tra quelli che stanno sulle mappe. Mi giro, l’urbanista piange. Ci vorrebbe una funivia per scendere fin sul palcoscenico e abbracciare la Fleming e dirle che è stato bello averla qui per trent’anni ma il sipario cala troppo presto e ci catapulta dall’entusiasmo al senso di smarrimento. Nel caso di mia madre è soprattutto fame, c’è un taxi che ci aspetta e in un attimo siamo al Grill, non avrei mai potuto portarla altrove. Il Seagram di Mies van der Rohe continua a essere il grattacielo più bello al mondo, mio padre aveva ragione e poi l’hanno costruito dove c’era la fabbrica della Steinway Pianos, certi luoghi sono baciati dalla fortuna. Il ristorante ha riaperto l’altro ieri. Basta l’ingresso e mi sento alla grande, per la scala di Philip Johnson, per il Franz Klein, per il Twombly, per il Miró.
Anche struccata lascia senza parole
Quando inizia a cantare il "Sono così tutte le cose al mondo" sappiamo che è finita e il teatro resta con il fiato sospeso. Poi il trionfo
Vorrei che mio padre potesse tornare tra noi, fare un secondo viaggio di nozze ed essere a cena qui. Al bar ci accoglie la scultura in tubolare di Richard Luppold. Proietta sulla parete lo skyline di Manhattan. Al centro c’è una bottigliera infinita, un ciliegio fiorito e la sapienza di un barman che sa come rendermi felice. Quando arriva il Martini, in un bicchiere perfetto, penso che potrei anche morire qui. La modernità è stato non cambiare nulla e rifare i piatti di un tempo. Dopo la vecchiaia c’è sempre una nuova giovinezza. Mi portano un filetto al pepe verde, croccante fuori e morbido dentro, fatto con la stessa ricetta dei tempi di Nina Simone, di James Brown, di Otis Redding. Le loro voci accompagnano la serata. Di fronte a noi c’è un tavolo con due ragazzi, in completo chiaro, hanno la cravatta sottile e un taglio di quelli che andavano di moda mezzo secolo fa. Dice mia madre che sembrano ibernati, potrebbero essere dello staff di John Kennedy, se non fosse che sono tutti morti. “Il tempo è una strana cosa, viviamo come se non esistesse ma poi scopriamo che è tutto in noi, attorno, sulle facce, sulla pelle”. Andiamo a farci un giro nella sala privata, ci sono i dipinti di Lee Krasner raccontati da un maître che sembra davvero d’altri tempi, ha gli occhiali d’oro con la tartaruga sulla parte alta. Dovrei rapirlo e portarlo a casa mia. Il secondo Martini ci fa ringiovanire di trent’anni e ci sembra di vederli i grandi quadri che Mark Rothko aveva dipinto nel 1959 per l’apertura del ristorante, dovevano venire qui ma accadde qualcosa che nessuno è mai riuscito a spiegare e infine approdarono alla Tate, proprio la mattina del suo suicidio. A ripensarci mi commuovo. Mia madre mi distrae: “Davvero l’hanno inaugurato nel 1959? Ha gli stessi anni della Fleming”. Non faccio in tempo a darle un bacio sulla guancia che veniamo distratti da un manipolo di persone. Al centro c’è una donna bionda, ha un abito nero e un trucco leggero. Assomiglia a Renée Fleming e la cosa più eccitante è che è proprio lei ed è una meraviglia anche struccata e ci lascia senza parole, è lo spirito di New York, ci permettiamo di avvicinarci e di rubarle un attimo e di brindare con un terzo Martini guardandola negli occhi. Un drink per dimenticare il passato e per guardare con speranza al futuro.
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