Musica a Rimini tra tribù e popolo
Una mostra al Meeting sul nostro bisogno di canti per non morire di solipsismo su YouTube
Rimini. Tra i padiglioni del Meeting di Rimini, nel formicolare caotico di persone e applausi, è facile ascoltare della musica. Canti, in particolare. Il popolo di Cl, sin dalle origini, è abituato a cantare. Don Giussani stesso afferma che il canto nel movimento e il movimento stesso, sono nati contemporaneamente. Amava, faceva imparare e pretendeva fossero ben eseguiti canti russi, una passione, di montagna, di ogni popolo. Canto e popolo erano per lui tutt’uno. Corri spedito dalla hall sud a quella ovest della fiera e ascolti i volontari che, tra una pausa e l’altra del loro lavoro, che si radunano sparuti a intonare ballate irlandesi o spiritual afroamericani, canti spagnoli o melodie alpine. E capita poi di incrociare una mostra dedicata a un cantautore, Claudio Chieffo, a dieci anni dalla sua morte.
Forlivese, uno dei “primi” a incontrare il sacerdote brianzolo e morto nel 2007. Il cantautore di Comunione e Liberazione, “il poeta e cantore della nostra amicizia” diceva Giussani. Inoltrandosi nella mostra a lui dedicata, strutturata come se si fosse all’interno di una gigantesca cassa di chitarra, è evidente, anche a chi ciellino non è, quanto siano vere le parole di Giussani. Il numero delle persone che visitano la mostra, cantano i canti diffusi nello spazio e proiettati in video è sbalorditivo. Sbirciando tra i dialoghi di queste persone ascolti i ricordi che legano un testo di Chieffo a un momento o a un episodio della vita di ciascuno. Canti che hanno fatto da colonna sonora alla vita di migliaia di persone. Un repertorio che, come si ricorda nella mostra, ha anche anticipato gli eventi del movimento o ha reso più comprensibile l’educazione cristiana che Giussani ha donato al popolo che negli anni cresceva attorno alla sua persona.
Un popolo e i suoi cantori. Un vero popolo ha i suoi cantori. Quest’ultimi hanno raccontato anime e vite diverse. I canti degli anarchici, marxisti e comunisti. I canti alpini. Quelli in trincea o delle guerre. I canti sono i loro autori ma anche di più: sono il cuore del popolo a cui i cantautori appartengono. Nasce un popolo, nascono dei canti che lo raccontano. Se non ci sono canti non c’è popolo e viceversa. E’ evidente nei nostri tempi dove il concetto di popolo è morto. Gli sciocchi a cinque stelle, vogliono venderci il mito del popolo della rete.
App e solipsismo
Non si canta più. Nemmeno la schitarrata sulla spiaggia agostana, utile per far gruppo e soprattutto cuccare, è sparita. Rimangono canzoni brutte, motivetti facilmente intonabili su testi demenziali. Intonabili con musical.ly, l’app “che ti fa diventare una star”. Quella scaricata da cento milioni di utenti che ha fruttato all’azienda Musical.ly circa cinquecento milioni di dollari. Sei stonato come una campana? Non riesci a cantare e muovere un muscolo a tempo? Conosci a memoria tutte le hits del momento e per questo credi di essere Rihanna? Benissimo, con musical.ly è fatta. Parte la base cantata dal vero interprete, contemporaneamente la video registrazione (di massimo quindici secondi) e il cantante deve solo mimare le parole. Ad abbellire il tutto la possibilità di applicare una serie di effetti. Un clic e tutto è pronto. Questo è il canto dell’“esercito del selfie” che “fa volare” molta gente nel solipsismo di YouTube e dei social. Una sorta di onanismo vocale, un karaoke muto che fa rimpiangere quello di Fiorello, idolo nazionale delle piazze italiane e sponsor del “Canta tu” che spopolava a fine anni Ottanta.
Siamo un popolo senza cantori che quindi non canta più. Quel poco che cantiamo è solo un grido sentimentale di solitudine, vuoto o protesta populista. Per questo non siamo un popolo ma sempre più una tribù.