L'arrivo del Maestro Bortolotto al Foglio e altri haiku degni di nota
L'amata bellezza, sprezzature e silenzi. ricordi nostri e degli amici
L’arrivo del Maestro Mario Bortolotto tra i collaboratori del Foglio, nel gennaio del 2009, fu tale nel senso concreto del termine. Alieno da qualsiasi forma di comunicazione che non fosse già praticata a metà del Novecento, il Maestro – così lo chiamavamo – per sei anni ci ha consegnato a mano i suoi articoli scritti con una Lettera 22 sempre a corto di nuovi nastri, introvabili. Arrivava in tarda mattinata, dopo la piccola passeggiata che divideva la sua casa trasteverina di via di San Francesco a Ripa dalla sede del giornale. Passo lento e deciso, la figura alta e un po’ curva, appoggiato con eleganza al bastone, salutava Renata o Arianna, pronte alla piccola cerimonia con cui ricevevano dalle lunghe mani da pianista del Maestro i fogli per farne fotocopia. Bortolotto sarebbe poi intervenuto – per emendarlo e integrarlo – sul testo trascritto al computer in redazione, dopo un gran lavoro di decrittazione delle correzioni a mano che testimoniavano dell’andirivieni febbrile del pensiero. Negli ultimi anni questo compito toccava a Roberto Raja, che ricorda, su un tavolino del salotto del Maestro, “un portacenere con stampata la locandina della prima del ‘Rake’s Progress’ di Stravinskij, nel settembre del 1951 a Venezia. Mi disse che gliel’aveva regalato Arbasino, e mi disse anche che lui a quella prima c’era”).
Al Foglio, il Maestro indugiava, intrattenuto a turno da uno di noi. Da quelle chiacchiere potevano nascere frequentazioni conviviali ma mai davvero confidenziali. Bortolotto, geniale musicologo e immenso intellettuale, non era mai del tutto decifrabile, come le più misteriose delle sue correzioni a matita. Quando provammo a fargli raccontare, se non la sua vita, almeno alcuni episodi baluginati tra una chiacchiera e l’altra, non ci si riuscì in nessun modo. Sprofondato nella sua poltrona nella casa interamente foderata di libri, nella penombra rischiarata da una lampada fioca, si mostrava disponibile. Ma ogni domanda diretta, ogni sollecitazione provocavano in lui una cortese reticenza. Come se tutti quei personaggi che avevano affollato la sua lunga vita, quegli interlocutori eccellenti che avevano scritto la storia culturale e musicale del secolo, non fossero traducibili che in aneddoti scarni, dalla consistenza di haiku. Il suo amico poeta Gilberto Sacerdoti, che lo frequentò a Venezia, dove Bortolotto ha insegnato Storia della musica, ricorda il terzetto inseparabile che il Maestro formava con Roberto Calasso e con Enzo Turolla, enciclopedico critico letterario. “Quella per Turolla è stata, per Bortolotto, un’amicizia intellettuale assoluta, non priva di terribili gelosie e di memorabili scenate. Passavano notti intere a discutere, senza smettere prima dell’alba. Gli altri, me compreso, assistevano incantati”.
Impromptu - incontri con Mario Bortolotto. from monica stambrini on Vimeo.
All’amica Lucia Campione, Bortolotto confessò che alla morte di Turolla aveva pianto per dodici ore filate, senza potersi frenare. Ma il resto del mondo non ricorda il Maestro come qualcuno capace di abbandoni che non fossero quelli provocati dalla musica, soprattutto, o dalla lettura. Il Maestro amava la bellezza, semplicemente. Finché la salute glielo ha consentito, andava a trascorrere i mesi freddi dal suo ex allievo Pietro Gallina, che a Salvador de Bahia, in Brasile, ha aperto con la moglie una scuola musicale per bambini di strada. Bortolotto assisteva alle lezioni, apprezzava la cucina del luogo, chiacchierava con tutti, bambini compresi, si godeva il caldo d’inverno. “I suoi occhi chiari dall’espressione vaga diventavano all’improvviso brillantissimi – rievoca la scrittrice Serena Vitale – quando coglieva una frase che lo convinceva o quando un pensiero gli sembrava degno di nota. Posso dire che conosceva Puskin meglio di me, e meglio di chiunque altro al mondo ha compreso la musica russa. Mi chiamava per essere sicuro di un accento, e fare la correttrice di bozze per lui è stato un onore. Mario Bortolotto appartiene allo stesso pantheon di Giovanni Macchia o Mario Praz. Maestri veri, come lui”.
Amico del Maestro Bortolotto è stato anche lo psicoanalista Ceschino Montanari, il quale ricorda che “si alzava tardi perché di notte leggeva, pervaso da una curiosità senza argini, spesso con accaniti approfondimenti per periferie culturali o colpevoli trascuratezze della memoria storica. Una sera, da me, pescò in uno scaffale un libro di Edoardo Cacciatore, poeta nel tempo non meritatamente riconosciuto. Con la stessa euforia con cui onorava un attraente piatto di manicaretti (“siamo quello che mangiamo”, soleva dire) divorò quel libro la stessa notte. All’indomani mi disse che quel Cacciatore ‘era qualcuno’. Null’altro. Qualche anno fa, con Mario, invitato d’onore, e Jacopo Pellegrini, ci recammo a Iesi per le celebrazioni del Festival Pergolesi. In auto, nel viaggio di andata, la conversazione tra i due si protrasse per ore a livelli vertiginosi su musica, musicisti, opere, interpreti, aneddoti, prelibatezze storiche. Poi, a teatro, per l’esecuzione de ‘Lo frate innamorato’ nessun commento, mimica fissa, silenzio glaciale. Al ritorno tra i due si riaprì la conversazione sul tema musica. Non sulla rappresentazione al tetro iesino, che rimase nel buio totale, ma sulle canzoni degli anni Quaranta. A Pordenone, raccontò Mario, si era trovato ad accompagnare al piano una canzonettista che allietava i militari della Wehrmacht. Il viaggio Roma-Iesi-Roma cominciò coi lieder di Woolf e finì con ‘Ho un sassolino in una scarpa, ahi’. Bortolotto era capace di esprimere sublimi sprezzature e abissali silenzi, come accadde in occasione di una tavola rotonda su un libro dedicato a Rossini. Al momento di intervenire, scosse a lungo la testa e non espresse verbo. ‘Mezzo cuore, due cervelli’: così qualcuno definisce gli uomini di genio. Non mi stupirei se qualcuno in futuro troverà Mario ascritto nell’elenco dei geni con Sindrome di Asperger. Un’umana aristocrazia”.