Con De Gregori al Bataclan la musica italiana all'estero ridiventa gran cosa
Teatro esaurito, tanti veterani e brividi di nostalgia
Parigi. La musica italiana, ascoltata da Parigi, ridiventa una gran cosa. Con una personalità sua e una vera profondità. Con una palpabile riconoscibilità che placa l’ascoltatore all’estero e sottilmente lo inorgoglisce. Succede che Francesco De Gregori valichi i confini nazionali inoltrandosi in una breve tournée che lo conduce a spasso per un po’ d’Europa, per farlo poi sbarcare a novembre negli Stati Uniti, con una data a New York e una a Boston.
Per l’occasione lui si toglie lo sfizio di varare una formazione ad hoc, che lo vede con soli quattro musicisti – piano, chitarre varie, basso e niente batteria, e con un suono sul crinale tra l’acustico e l’elettrico, in cui a predominare è una sensazione di liquido flusso delle armonie – un “andante” perenne, con moto – che più di tutto avvantaggia la presenza della sua voce, e ovviamente delle cose che dice. Tutto ciò in scena davanti alla platea esaurita del Bataclan, in una profumata sera d’autunno parigino. Già nella fila all’ingresso che si sottopone agli sbrigativi controlli, regna un’atmosfera commossa, tipo “eccoci qua, noi italiani, a fare il nostro, in questo posto sbattuto nella storia, suo malgrado”. Collettivamente rassicurati dalla consapevolezza che dentro stia accordando la chitarra uno come Francesco, che non prevede cedimenti quando si tratta di suonare dal vivo e che conta su quel maestoso repertorio, un’inaffondabile corazzata, col capriccio di mettere ogni volta su una sorpresa, per esempio una canzone che non si sente da decenni, prima d’avviare la sarabanda delle immortali e consegnare, con la puntualità del miglior fioraio, la commozione ai convenuti, tanto più in un’occasione così – Francesco al Bataclan…! Del resto questo locale, con la sua struttura ovale e avvolgente e l’acustica perfetta, è davvero bello, in particolare per un concerto così. E però lo strano mondo in cui viviamo fa sì che l’evento lo si viva con la perplessità d’essere placidamente qui questa sera. E non nell’assurda del massacro.
Lo stesso De Gregori, più prodigo di parole del solito, introduce le prime canzoni divagando di musica e altro, non sfiorando mai ciò che tutti sanno: l’emozione c’è, ma è questione privata, che sfugge a definizioni o a discorsi d’occasione. Tutto al più ci si può riconoscere con uno sguardo di sfuggita: il fatto d’esserci, in fondo, è la frase conclusiva sull’argomento. Poi parlano le canzoni di Francesco, nella magia che le restituisce più lucenti, esplicite e intense che mai, in questo formato agile, con la sua voce forte e alta nello scandirne i versi. De Gregori comincia esponendo il campionario escogitato per l’occasione, ovvero una partenza esigente, fatta di pezzi introspettivi e complessi, con “Gambadilegno a Parigi” al secondo posto in scaletta (“Guardalo come cammina / Lazzaro di Notre Dame / Come sta dritto nella tempesta / alla fermata del tram”) e alcune cose raramente eseguite dal vivo, come “Due Zingari” e “I matti”, prima d’imboccare la cavalcata trionfale della seconda parte del concerto, dove si snocciolano i classici condivisi (“Titanic”, “La leva calcistica”,” Generale”, “Buonanotte fiorellino”, “Rimmel”, “Viva l‘Italia” – e giù con l’attimo di fierezza dell’ “Italia che non ha paura” – “La donna cannone”, fino al ricordo di Lucio (“4 marzo ’43”) che è un modo elegante di salutare il pubblico in basso profilo, prima del bis con “Falso Movimento” e “Alice” e il già canonizzato (e benedetto dai fans) duetto con donna Chicca, consorte dell’artista, per la muroliana versione di “Anema e Core”, che rammenta come tutto stia nella forza dell’amore. E’ uno show che tiene conto della sua natura da esportazione e del brivido di nostalgia che su un boulevard è piacevole sentire, ma che non rinuncia a essere coerente, dandosi licenza di lievi ed inattesi volteggi vocali e d’arrangiamento. Veterani (tanti) e qualche principiante del culto, si ugualmente sono deliziati, godendo soprattutto del portato lirico di Francesco, nell’occasione risplendente di luce smagliante. E alla fine tutti a casa, stavolta contenti d’essere italiani all’estero, con un nonsochè di sensibilità che guai a chi ce lo tocca.