Perché vale la pena di andare ad ascoltare Mozart e Pergolesi suonati dai Wiener
Il festival di musica sacra a Roma che piace a Benedetto XVI
Roma. L’arte salva l’arte. Basti questo piccolo motto a spiegare quello che ormai dal 2002 accade nelle più importanti basiliche patriarcali romane. Un festival di musica sacra che, con i proventi raccolti da libere donazioni o sponsor sensibili al tema, adotta il restauro di alcune opere d’arte nell’Urbe. Quest’anno ad esempio si finanzieranno i lavori di restauro del tamburo della grande cupola della Basilica di San Pietro in Vaticano e delle cupolette minori delle cappelle Clementina e Gregoriana.
L’arte salva l’arte si diceva. Anche il bello salva il bello e lo genera, alcune volte, miracolosamente. Lo incrementa. Così da sedici anni il Festival della Fondazione Pro Musica e Arte Sacra risuona a Roma; da quel lontano 2002 quando la Rassegna vedeva solo quattro concerti si è giunti all’edizione 2017 (dal 4 al 10 novembre) con un numero più che raddoppiato di eventi e l’attenzione di tutto il mondo della cultura. Non solo. Nel 2008 Benedetto XVI incuriosito dalla portata artistica e valoriale della manifestazione decise di presenziare, con tutti i partecipanti alla XIIa Assemblea del Sinodo dei Vescovi, al concerto presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Non si scopre nulla di nuovo ricordando quanto il Papa emerito veda nella musica e nel bello la capacità di generare unità e verità. Lo ricordava nel 2007 al concerto in onore dei suoi ottant’anni: “Sono convinto che la musica sia veramente il linguaggio universale della bellezza, capace di unire fra loro gli uomini di buona volontà su tutta la terra e di portarli ad alzare lo sguardo verso l’Alto e ad aprirsi al Bene e al Bello assoluti, che hanno la loro ultima sorgente in Dio stesso”. Nel Festival di Musica e Arte sacra di bellezza ce n’è tanta. Nelle meravigliose Basiliche Patriarcali si eseguirà il grande repertorio sacro da Wolfgang Amadeus Mozart (con il Requiem K 626) a Anton Bruckner (Te Deum, Messa in Re minore) passando per “La Creazione” di Franz Joseph Haydn. L’evento centrale però è quello che vede protagonisti i Wiener Philharmoniker. La compagine austriaca è da sedici anni “orchestra in residence” del Festival.
Strenue sostenitrice dell’evento, il suo concerto è divenuto ormai punto fisso dell’autunno romano. Non solo. L’Orchestra austriaca è sempre stata accompagnata (quando, come quest’anno, non si presentava in formazione da camera) da illustri direttori: il nostro Riccardo Muti, Georges Prêtre, Christoph Eschenbach, Andris Nelsons solo per citarne alcuni. Nella Basilica papale di San Paolo fuori le Mura, sotto gli occhi vigili dei successori di Pietro, quest’anno i Wiener eseguiranno due capolavori: il Concerto per clarinetto e orchestra K 622 (clarinetto di bassetto per i puristi) di Mozart e lo “Stabat Mater” di Pergolesi. Due omaggi, il primo al conterraneo talento viennese e il secondo all’Italia che ha dato i natali al mai troppo apprezzato compositore Jesino. L’impaginato presenta tantissimi legami. Mozart e Pergolesi sono due “enfant prodige”, due geni sarebbe meglio dire, perché il genio è colui che comunica con facilità e nel suo linguaggio l’esperienza di tutti, accomunati da una precoce morte. Mozart a trentacinque anni e Pergolesi a ventisei. Entrambe le composizioni sono scritte in prossimità della morte. Per Mozart sarà l’ultimo concerto solistico, dedicato a uno strumento che, scorrendo le partiture, è utilizzato in maniera mai casuale. Anche le tonalità d’impianto dei due pezzi, LA maggiore il concerto e FA minore lo “Stabat Mater”, sono in rapporto, come direbbero gli esperti dell’analisi musicale, per affinità di terza. Due brani che raccontano il tema del destino in maniera diversa. Pergolesi lo fa attraverso la figura di Maria, della Madonna che “stabat”, stava certa, di fronte al Figlio che moriva per redimere il mondo. Mozart invece ci dice quanto l’uomo abbia bisogno di Qualcuno che ci redima, abbracciando con tenera misericordia tutto il nostro male. L’arte e la bellezza quindi salvano anche l’uomo perché gli ricordano questa sua drammatica ma pacificante condizione.