Povero pop italiano
I canzonettari nostrani non hanno nulla da dire eppure si ostinano a dirlo lo stesso, e tra l’altro male, malissimo. Viaggio radiofonico all’origine del cattivo gusto contemporaneo
Luce e buio: per Giorgio Manganelli la letteratura era un luogo oscuro, imparentato con la tenebra, e accedervi significava intrattenere una “cerimonia con l’ombra”, perché – scriveva – solo l’ombra delle parole ne sapeva svelare la ricchezza, minando la mortificante univocità dei significati. A leggerne i testi, si direbbe invece che sulla musica leggera italiana contemporanea sfavilli imperturbato il mezzogiorno di un Ferragosto di parole fesse, affette da se stesse e da sempre più fiacche capacità, debilitate ai Caraibi perpetui del discorsetto amoroso. Non che ci si aspetti ciò che è illecito aspettarsi (dopotutto, come ribadiva recentemente a Faremusic.it Alberto Salerno, “i poeti fanno un altro mestiere”, infatti resta scolpita negli annali del grottesco un’intervista in cui Biagio Antonacci, conversando con Baudo, qualificò come dannunziana un’intuizione per il testo di Coccinella). Non che si ignori la necessità, anzi, il valore della riproposizione dell’identico come condizione per il successo di mercato (“Cos’è questa novità?” “E’ una novità, purtroppo”, Vitaliano Brancati, “La governante”). Non che si voglia reperire Caproni Giorgio dove al massimo può esserci Mengoni Marco. Ma il minimo sindacale, quello sì, lo si deve esigere, e in nome di ciò che alle canzonette si affida: la nostra anima.
Le canzonette, dunque. Però in senso truffautiano. Il regista le amava, le utilizzava per i suoi film e sapeva che parlarne significava parlare di cose serie perché, di un’epoca, le canzonette sono il sistema nervoso periferico, la sismografia sentimentale, l’antologia aerea dei desideri, degli archetipi e dei significati che le orbitano intorno. Ogni genere ha i propri. “Il rock dev’essere pericoloso”, diceva Mick Jagger. Il pop no, fa un altro mestiere: somministrare musica antiverbosa e squisitamente disinvolta, dotata di quell’essenzialità che consenta all’ascoltatore di identificarsi, innamorarsi e, nel migliore dei casi, godere di spicciole ma cruciali epifanie. Ed eccoci – con dolore – al punto: alla luce di quanto appena stabilito, l’asino della canzonetta italiana è già cascato. La maggior parte dei canzonettari italiani non sembra in grado di offrire nemmeno il minimo di quel che è lecito chiedere, non ha nulla da dire eppure si ostina a dirlo lo stesso, e tra l’altro male, malissimo, sempre peggio, pigiando parole stupido-modaiole pronunciate con insopportabili birignao dentro metriche approssimative. La questione non va sottovalutata, perché la scarsa qualità del pop italiano non solo lede i nostri diritti fondamentali, ma – il prossimo premier dovrà tenerne conto – è una delle più odiose zavorre che frenano l’economia. Se è vero che la sguaiatissima “Despacito”, alla luce di quanto certifica Isabelle Pinson, vicepresidente di Hotels.com, ha contribuito a far impennare il turismo nell’isola di Puerto Rico di un 45 per cento, provate a chiedervi il senso della canzonetta italiana per il Pil, e se l’ascolto delle puerili filastrocche di Lorenzo Fragola o delle cardiofilippiche degli esagitati Modà possano invogliare chicchessia, provvisto o no di passaporto, a raggiungere, che so, Torre Pedrera, e a prendere sul serio il nostro immaginario. Dirò di più: ci sarebbero gli estremi per una class action senza precedenti, ma fatela voi, io sono estenuato, l’ultima estate musicale è stata deprimente e ha fatto come sempre malissimo al pop italiano, disintasando un mondo lirico di risulta, fatto di amori fuggevoli, vodka, odore del mare, hashtag fuori c’è il sole, baci, chiappe, sabbia e Riccione, insomma, la cronaca terrificante della vitonzola ipo-Smeralda del cafone collettivo. Ma c’è un’altra cattiva notizia: il trend non sembra avere remissione. Infatti, se anche adesso è novembre, le tazze di cioccolata calda fumano tra le mani delle ragazze nelle pâtisserie e qualcuno ha già sballato l’albero di Natale, la bruttezza è ancora tra noi.
Sulla musica leggera italiana sfavilla imperturbato il mezzogiorno di un ferragosto di parole fesse, affette da se stesse e da fiacche capacità
Così, deciso a far chiarezza, ho preso il toro per le corna e ho passato interi pomeriggi ascoltando Radio Italia, chiedendomi quando avesse preso il via questa catabasi nel cattivo gusto. Difficile districare la matassa. Storicamente ho sempre ritenuto che l’apice del brutto canzonettaro fosse “Serenata” di Amedeo Minghi, uno sciagurato vaneggiamento che spiattellava versi del genere: “Io non muoio se non vedo te / che non ti svegli ma togli il sonno / anche alle barche”. Poi però venne Nek, che con “In te” ci nitrì il massimo del minimo sanremese, ed ecco che all’improvviso, nel mio cartellino personale, le sue “mani cucciole” pre-adinolfiane spostarono di un bel chilometro più in là il confine dell’orrido. Ma ce lo ricorda Woody da Manhattan: i record sono fatti per essere battuti. Infatti venne il 2010 a segnare il punto di non ritorno dell’empietà canzonettara, incoronando Valerio Scanu re del tremendo lirico. “Noi coperti sotto il mare a far l’amore / in tutti i modi / in tutti i luoghi / in tutti i laghi”. Allen insegna: non abbassiamo la guardia, il peggio deve sempre arrivare. Per di più, al fatto che il tempo fosse un gran dottore non credeva già Loredana Bertè nel 1975, figuriamoci noi, portatori di orecchie che sono state coventrizzate da anni negramari. Vietato sperare? Agli ottimisti rivolgo questo florilegio di efferatezze sangiorgesche, si scelgano la preferita. “Ho copiato i frastuoni che fanno anche gli alberi quando la vita è ingombrante”; “Ho ingoiato il sudore del mare”; “La strada si aggroviglia nei tuoi capelli”; “Sciogliti i capelli nel fango solo se ci riesci”; “Asciugami i pensieri col fiato degli ultimi alberi”; “Le chiese sono bocche di donna coi fucili appesi”; “Rimboccami le maniche quando pioverà dai muri”; “Ti vedranno correre su cieli di ciniglia e di popcorn”. Ma si potrebbe continuare all’infinito, il canzoniere del gruppo trabocca di schiumose balordaggini che i fan credono ricercate. (In proposito è impagabile compulsare significatocanzone.it, community esegetica che si fa carico di discutere il senso dei testi musicali più ermetici; vi si legge di tutto, da contorti tentativi di dirimere il contorto, a lapidarie sentenze d’umor lapalissiano, che recitano: “Il significato di questa canzone è: l’amore”. Tra i commentatori la mia preferita è Ges92: in una chiosa a un testo inaudito di Antonacci – il monarca del verbo sostantivato, vezzo tra i più naïf di chi si illuda di parlare alto, e del resto lo stesso Biagio, su Twitter, si definisce sventatamente “paroliere ricercato” – afferma che la sue frasi sono “da tatuaggio”, e giuro che intendeva elogiarle. Quindi cita questo indimenticabile epigramma del rimator rozzanese: “Se ti va vieni a prendermi / nell’hotel che costeggia il sole”).
Meta vanta i versi più brutti: "Beatrice non avrebbe niente da insegnarti / ragazza Paradiso" è l'emblema di un pop esanime
Insomma, dicevamo, gli anni sono passati e il panorama è peggiorato: ma è davvero così? Con spirito kantiano ho diffidato della mia percezione e mi son messo di buzzo buono per verificare razionalmente questo giudizio, forse – rimproveravo a me stesso – troppo passatista, nonnesco, frettoloso. E ho riletto, sceverato, riascoltato, ma non c’è stato nulla che m’abbia convinto ad annacquare i sospetti. Anzi, apriti sesamo: “Mare mare” di Luca Carboni ha fatto balenare ai miei occhi, d’improvviso, inattese iridescenze montaliane; il verso “mi chiamo Laura / e sono laureata” di Antonello Venditti m’è parso un sapido calembour; “Angelo” di Francesco Renga era lì, su un vassoio pentagrammatico, mellifluo capolavoro di giustezza pop; “Marmellata #25” di Cesare Cremonini – brano che infila una serie di maliziose scaltrezze, sapendo tuttavia tenersi sempre un passo di qua dal burrone (e lasciando che quello in là lo faccia l’ascoltatore) – si candidava perentoriamente a manuale di come le canzoni pop vadano scritte; “Sere nere”, impennata iperemotiva fin che si vuole, m’appariva come rosa aulentissima sbocciata tra le zolle della miglior tradizione (Tiziano Ferro, poi, è uno dei pochi a non avere in uggia i tempi verbali del congiuntivo o del condizionale). Il punto è questo: ormai la musica pop italiana sembra divisa in due incomunicabili aree. Da una parte il pop cafonal, cremoso di linguaggio uozzapparo e ritornelli da social, avvilito a trovarobato di calchi espressivi in voga; dall’altra il pop con posa autoriale, che a tratti è perfino peggiore, frantume, com’è, di gozzanità deteriore, stravaganza mal governata e intenzioni che soverchiano risultati spesso ostruiti dal lessico di un banalizzato post-battiatismo (insopportabile il filone di matrice carmenconsoliana, tutto bizze metriche e lunaticità fattasi cifra). Manca dunque una guida? Una borghesia illuminata rimarola? Una classe media poppettara che non si vergogni di sé e non pecchi di velleitarismo, ambendo a ivanofossatismi per cui non ha la muscolatura? Significativa, in proposito, una dichiarazione di Francesco Bianconi dei Baustelle. In una conferenza stampa definì “L’amore e la violenza” un disco “oscenamente pop”. Anche al netto dell’ironia di cui si servì per illustrare il concetto, emerse ai miei occhi il fatto che per alcuni, in Italia, dire pop significhi rasentare l’oscenità. In ogni caso, accendere la radio in questi mesi ha significato imbattersi in strazianti querimonie (“La luna piena” di Samuel è stata il flagello apicale), in tediosi ritornelli-reclamo del genere “io ti amavo, tu non mi amavi, mio Dio perché?” (Alla luce di tanto prolasso sentimentale vien nostalgia per “Bella stronza” di Masini, suprema e impavida piazzata di un’èra pre-Weinstein), o negli scotomi di infiniti colpi di coda spiaggiaroli in ossequio al Grande Algoritmo Implicito – da oggi sarà anche possibile godersi il nuovo emolumento al banale-con-pretese che, puntuale come la rata di un mutuo, verserà il nuovo lavoro di Jovanotti.
Ascoltando certe canzoni oggi "Angelo" di Renga, "Sere Nere" di Ferro e "Mare mare" di Carboni spiccano per profondità e poetica
Gli anni sono passati invano? Qualcuno, a un certo punto, ripose fiducia in Marco Mengoni, uno che riga sì riga no celebra la propria sensibilità, la splendida fragilità, l’infinita capacità di rialzarsi. Fin qui tutto ok, siamo nei paraggi del pop. Ma lo stesso Mengoni, senza grandi soprassalti, ha accettato di cantare “sarà che forse dentro sono un po’ re Magio”. Come non ribellarsi a questo verso, invocando parolieri consapevoli? E ancora: in nome di quale (anche non nobile) finalità appassionarsi alle fesserie rovazziane? Con quali argomenti difendere le gnaule di Michele Bravi, la cui recente “I diamanti” batte il record di tutti i plagi volontari, involontari e subliminali? Come apprezzare per più di due minuti (poi subentrano voragine interiore, spleen, demoralizzante sensazione di party perpetuo) il patchwork lirico di Gabbani? In che modo recuperare Elisa a se stessa? Come trasognare su liriche del genere “ci fermeremo a far l’amore funky” o su trovate quali “Ti arresterei per quell’eccesso di bellezza / per quell’eccesso di eleganza”; “Questo sangue che sa un po’ di mostro”; “Vorrei prenderti per mano / dirti che / il dolore è solo / un’invenzione dell’America”; “Anestesia non ce n’è / perché amare quasi sempre è / voce del verbo morire”?
A proposito, questi ultimi guaiti appartengono a Ermal Meta, il nuovo campione nazionale del verso goffo. Parlarne male è difficile, non solo perché l’uomo è simpatico, ma perché a suo sostegno scatta il Pavlov difensivo della genuinità dell’autobiografismo – “lui certe cose le ha vissute” – oppure, peggio, la sudditanza a priori verso il Grande Tema, da cui è certo che non si possa del tutto prescindere, ma rispetto al quale nemmeno si deve soccombere, altrimenti si accetti senza fare una piega che “Mary”, spaventosa composizione dei Gemelli diversi datata 2003, valga quanto “Janie’s got a gun” degli Aerosmith. Superato l’equivoco, va detto che, a parere di chi scrive, il canzoniere del Meta vanta tra i versi più brutti degli ultimi anni. “Beatrice non avrebbe niente da insegnarti / ragazza Paradiso” è l’emblema di un pop esanime, purgatoriale e auto-ipnotico, che non trova se stesso e nemmeno altro. Tuttavia attendiamo fiduciosi l’inverno, l’anno nuovo, e tutto ciò che avranno in serbo. Woody Allen ci ha insegnato l’ottimismo.