Vita e stile del re del rock'n'roll Hallyday, che incarnava i sogni dei francesi
"Tutti hanno qualcosa di Johnny", ha tuittato Macron
In perfetta controtendenza, Johnny Hallyday era una star antiglobale, in quanto incarnava la versione prettamente francese – adattata, rimodellata, ma altrettanto idolatrata – del grande modello internazionale, l’originatore supremo, Elvis Presley. Lui era la declinazione francese dell’idea che il rock’n’roll avesse bisogno di un re (principio rimasto intramontabile) e che questo re ammetteva dei replicanti, in quanto forma d’arte popolare che andava incontro ai desideri del pubblico. E i ragazzi francesi dei primi Sessanta avevano gli stessi turbamenti dei coetanei d’Oltreoceano e godevano a sentirli declinati in forma di canzoni, ma al tempo stesso masticavano pochissimo le lingue, l’inglese in particolare, che non imparavano per principio. Dunque elessero il loro sovrano del rock, della botta di bacino e del ciuffo impomatato e se lo scelsero a immagine e somiglianza della silhouette che abitava le fantasie delle ragazze: bello e tenebroso, biondo e malandrino, con lo sguardo di ghiaccio e di fuoco, e una voce i cui bassi facevano vibrare la colonna vertebrale. 110 milioni di album venduti più tardi, Johnny è passato a miglior vita, a 74 anni per un tumore che lo minava da anni. E, per dare l’idea della portata dell’evento, la vedova Laeticia, accertato il decesso, alle 2 di notte ha avvisato direttamente Emmanuel Macron, autorizzando l’inizio di quello che s’annuncia come uno dei lutti nazionali di cui i francesi sono grandi allestitori, come successe, per restare nei dintorni, quando se ne andò Edith Piaf. Macron ha avviato la celebrazione con un tweet: “In ciascuno di noi c’è qualcosa di Johnny”, ammiccamento alla sua “Quelque chose de Tennessee” che nell’85 fu un successone.
Ma va detto che questo patriarca del pop era molto di più di un cantante: era “il” personaggio pubblico per i francesi, il volto più abituale sulle copertine dei rotocalchi (sessanta volte su Paris Match, record ineguagliato), l’uomo dagli amori travolgenti e tempestosi, immortalati dai paparazzi e puntualmente scanditi da nozze, tradimenti e tempestose separazioni – si trattasse di Sylvye Vartan, che gli diede il figlio David, o delle tre mogli che seguirono, per non citare le relazioni extraconiugali, la più famosa delle quali fu con l’attrice Nathalie Baye. Eppure gli inizi erano stati difficili: nato Jean-Philippe Smet, a Parigi, abbandonato dai genitori e cresciuto da una zia con la passione per il cabaret. E’ un ragazzino quando comincia a esibirsi, impersonando la figurina del coupin, il duretto senza paura, quando era ancora un adolescente pieno di insicurezze. La sua fortuna è un soggiorno con la zia nella Londra anni Sessanta, durante il quale viene ammesso nei giri dei rocker più prestigiosi, in un’epoca in cui tutto era più facile e a portata di mano. Fa amicizia con Mick Jagger e con John Lennon, fa lega con Jimi Hendrix e, solo pochi anni dopo, quando è già una star, si toglie lo sfizio di far aprire i suoi concerti, come band scalda-pubblico, proprio a Jimi e soci.
Quello che nel corso della sua carriera gli antipatizzanti gli hanno sempre contestato è il reale spessore del suo talento: bravissimo a copiare, adattando di volta in volta lo stile ai nuovi astri nascenti d’Oltremanica, ma privo di un’autentica personalità artistica. La cosa, ovviamente, lo faceva imbestialire e per Hallyday era un fatto di principio dar prova delle capacità, che, per dirne una, l’avevano fatto scegliere come attore da Jean-Luc Godard – un po’ come da noi, agli inizi, capitò con Celentano. Solo adesso, dopo mezzo secolo di pop, capiamo che in effetti il suo era uno stile particolare: più accennato che conclamato, ultralight e scintillante, un po’ alla buona ma terribilmente divertente. E che il suo ruolo era, soprattutto, quello di fare innamorare e di farsi guardare. Perché lui era la matrice. Ma, imitandolo, almeno due o tre generazioni di giovani francesi, a un certo punto hanno messo giù uno sguardo torbido e inquieto, hanno infilato il giubbotto di pelle e hanno vissuto il loro indimenticabile periodo “alla Johnny”.
Stefano Pistolini