Ed Sheeran batte Kesha. Non bastano le molestie per vincere un Grammy
Le polemiche a margine degli Oscar della musica evidenziano come viviamo in tempi in cui il premio a miglior performance pop va consegnata non a chi la merita per questioni artistiche, ma a chi la merita per condotte morali
Era una bugia. James Corden, il conduttore del Late Late Show che ieri presentava i premi musicali, aveva promesso: “Ai Grammy contano le esibizioni, conta la musica”. Per fortuna non è così, o non ci sarebbe niente da vedere o di cui parlare. Contano tante altre cose: i vestiti, i pettegolezzi su divorzi imminenti o sognati, le inimicizie tra colleghi, i tracolli emotivi e fisici, le rinascite. Ma capiamo Corden, che per aver scherzato su Weinstein lo scorso ottobre, prendendolo in giro, s’è dovuto subire gli insulti di Asia Argento e Rose McGowan (gli hanno dato del maiale), perché l’umorismo era fuori luogo. Per quest’edizione ha quindi promesso un siparietto metoo, o time’s up, o quel che ci sta in un hashtag.
Oltre a Jay-Z e la moglie Beyoncé che si tenevano per mano (niente divorzio ma doppio album sulle corna, tour mondiale e parto gemellare); oltre a John Legend che a E! raccontava d’essere passato a un gabinetto giapponese che ti fa da bidet (la moglie lo avrebbe fulminato); oltre a Cardi B che aveva “le farfalle nello stomaco e nella vagina” (anche loro hanno le loro Cipriani); oltre a loro c’erano sopratutto le rose bianche simboliche per sostenere il movimento femminile, e per fare bella figura alle interviste.
In tempi di politica identitaria contano le adesioni, l’attivismo, i discorsi dal pulpito. E il giorno dopo si scrivono articoli su chi aveva la spilletta e chi no, chi s’è detto femminista e chi ha fatto una gaffe per la quale sarà costretto a scusarsi. Ma soprattutto ricordiamo il discorso memorabile (se non proprio epocale almeno settimanale), come quello di Oprah Winfrey ai Golden Globes. Ci ha provato Camila Cabello, cantante cubana ventenne: tema immigrazione. Ci ha provato il rapper Logic, a fine esibizione ha detto “A tutte le bellissime nazioni piene di cultura, diversità e migliaia d’anni di storia: siete bellissime, non shitholes”, ma è stato censurato dalla CBS (le parolacce le può dire il Prez ma, come ci ha spiegato George Carlin, non certo in tv). Tuttavia il discorso del giorno dopo è uno solo: quello di Janelle Monae che s’è espressa sul tema del momento, la sorellanza, gli abusi di potere maschile sulle donne, iniquità salariali, concludendo con: “Veniamo in pace, ma siamo determinate”.
Monae stava presentando l’esibizione di contenuto della serata. Quella su cui in genere si punta per vincere tutto. Sul palco c’era Kesha, la superstite, Kesha la stuprata, Kesha l’abusata psicologicamente. Ricorderete, il 2016 è iniziato per lei un calvario in tribunale per dissociarsi dalla casa discografica del suo aguzzino, l’uomo che l’ha resa famosa e al contempo le ha procurato un tracollo psicologico, il produttore Dr. Luke. Praying è la canzone che gli ha dedicato, quella in cui racconta d’aver imparato a essere più forte per difendersi da lui, quella in cui, nel verso che vincerebbe il premio passivo aggressività, canta: “Qualche volta di notte prego per te / e spero che tu un giorno veda la luce”, e anche “spero tu possa trovare pace / e spero che tu stia pregando in ginocchio”.
Con lei sul palco altre donne tra cui Julia Michaels, Cyndi Lauper e il Revival Chorus. Tutte in bianco. A fine esibizione – tutto fuorché memorabile – Kesha è scoppiata a piangere. Ma il momento più imbarazzante non è stato questo, è stato quando nella categoria Best Solo Performance, ha vinto un uomo bianco contro quattro donne. Ha vinto Ed Sheeran, il cui album "Divide" rimane in testa alle classifiche da oltre un anno. Ma non è una donna e non ha subito abusi, e quindi i fan hanno iniziato a lamentarsi su internet, che è un po’ il Barabba Barabba dei nostri tempi, e lì tutti sostenevano che il premio lo meritasse Kesha. E non è tanto che ci credano, quanto che considerino legittimo scriverlo pubblicamente. Certamente Kesha è una vittima, ma i Grammy non sono una disputa al primato della sofferenza.
Viviamo in tempi in cui il premio a miglior performance pop va consegnata non a chi la merita per questioni artistiche ma a chi la merita per condotte morali. Teen Vogue ha scritto che “riconoscere l’impressionante lavoro di una vittima di abusi sessuali non è solo commovente ma prudente”. Un po’ per pigrizia intellettuale e un po’ per piaggeria verso i fan, si ripubblicano i tweet il cui tono è “siccome ha subito abusi sessuali e ha problemi di bulimia sarebbe stata un’ottima vincitrice”. Un altro uomo ha vinto ma per fortuna non è bianco: si chiama Bruno Mars e il 2017 è stato sicuramente il suo anno (Jay Z non aveva con sé spillette o fiori da appuntarsi per dimostrare il proprio disappunto).
Così, mentre Lorde si rifiutava d’esibirsi perché l’industria è troppo misogina, Lady Gaga modificava il testo di Million Reason per includere il Time’s up movement e su Twitter davano la colpa al patriarcato se la propria cantante preferita non aveva vinto una statuetta, in questo delirio generale, tutti si sono persi una che in passato è stata picchiata dal compagno, non si è mai fermata un momento e ha sempre lavorato sulla propria carriera, ha costruito un impero (tra hit, linee fashion e profumi) e ballava mostrando a tutti le sue forme morbide su “Wild Thoughts”. Lei è la più agguerrita, e se non lo vediamo è perché scambiamo il vittimismo per emancipazione. Buttate le rose e imparate da Rihanna.