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Così il Sanremo quirinalizio, autarchico ma non sovranista, anticipa il post voto

Giuseppe De Filippi

Al Festival non c'erano canzoni, ma parti della nostra carta fondamentale della musica e del sentimento. Claudio Baglioni non governa, ma regna e guida

Rifuggite dalla metafora sanremese. Lì all’Ariston non rappresentano, non imitano, non trasferiscono, appunto, la cronaca in metafore. Al Festival inventano, danno la linea, indicano strade. Il Claudio Baglioni regnante e non governante è stato, per traslato del ruolo regnante, il protagonista semi-immobile del Festival più quirinalizio della nostra storia. Dando l’esempio prima di tutto su se stesso, come da lezione di Sergio Mattarella. Un passo indietro eppure un passo avanti rispetto a ospiti e conduttori più simpatici di lui. Interprete di pezzi acclamati, già consegnati alla gloria della critica e del gusto. Non canzoni, ma parti della nostra carta fondamentale della musica e del sentimento, che poi sono varianti non secondarie della socialità e della socialità politica.

 

Una sera è partito, senza essere presentato (e da chi poi?), senza presentarsi, si direbbe senza salutare, senza orpelli grafici che non fossero la localizzazione sanremese, peraltro talmente scontata da essere messa lì come una concessione, ancora una volta, regale (come un documento emesso nel tal palazzo reale e lì datato). Ha preso una chitarra elettrica, si è presentato con un giubbotto nero, e ha cantato e urlato un suo pezzo storico che è sembrato nient’altro che un messaggio alla nazione. Di quelli veri, in cui non è importante il contenuto, ovviamente fedele alla carta fondamentale, ma sono importanti due cose: l’occupazione della scena (la regalità) e il massimo consenso. E poi ha chiuso il pezzo senza passare subito dalla poesia del messaggio alla prosa della conduzione. In cui non era mai caduto, sempre lasciando ai due, bravi simpatici, ricchi di talento, ma esposti al giudizio del pubblico imprevedibile, il ruolo (governativo) di condurre. Certo, ha puntato, come si è detto, su una intesa, non gli è sembrato il momento di avere conduttori unici. Ma la scelta era sua, l’importante era ribadire il ruolo del potere che sta reggendo il paese e il Festival. La volontà popolare se ne stava, va detto, un po’ messa all’angolo a causa di quel sistema elettorale molto complesso e anche dichiaratamente estraneo al suffragio universale, tra critici, giornalisti, giurati di qualità, che, come si potrebbe dire populisticamente, non erano eletti da nessuno eppure contavano. Ma il Baglioni quirinalizio ha tenuto dignitosamente anche di fronte a questi passaggi, oggetto di possibili contestazioni.

 

Il Festival ha un suo modo di esaltare il pluralismo italiano, premia i giovani e gli autori un po’ più raffinati, distribuisce premi locali e qualifiche internazionali, e soprattutto sa che poi decide il mercato, come insegnano i noti precedenti di canzoni ultime all’Ariston e prime nelle classifiche. Il ruolo quirinalizio prevede che la voce interprete della comunità nazionale dia anche un aiuto a chi è più debole, cerchi di mettere in pari le condizioni di partenza sul mercato, intervenga benignamente. E che riconosca i poteri autonomi, qui detti ospiti. Che siano nazionali, come Gianna Nannini o Gianni Morandi o Biagio Antonacci, e che siano stranieri come Sting e James Taylor. Oggi il direttore Claudio Baglioni ha ricevuto al teatro Ariston l’autrice e interprete Gianna Nannini, i colloqui sono stati cordiali, sono stati trattati argomenti di comune interesse. Proprio così, anche con l’autore e interprete Biagio Antonacci. In entrambi i casi con altissima qualità garantita delle prestazioni musicali. E quando poteva succedere che la qualità appena appena latitasse ecco che arrivava il ricordo, la commozione, il brivido personale di ciascuno a rimettere le cose a posto. E’ andata meglio con gli ospiti italiani, mentre i rappresentanti diplomatici stranieri sono rimasti un po’ ingessati nel loro ruolo o hanno tentato penosi ammiccamenti a un presunto gusto italiano, andando a calpestare, stupidamente e con poca creanza, una evidente prerogativa del regnante. Anche per queste ragioni è stato un Sanremo nazionale, italiano. Su una linea però non identitaria o sovranista, ma ancora una volta quirinalizia, con accenti però più da Carlo Azeglio Ciampi. Mentre la stoffa paragonabile a quella d un Giorgio Napolitano si vede ora, nel dopo Festival, con le implorazioni perché resti, perché faccia un altro mandato. Il Baglioni necessario, insomma, che, ancora regalmente, saprà lasciare strada anche al Baglioni sostituibile.

 

Ci si avvia alle elezioni tra poco. Ancora: niente metafore, ma anticipazioni. Baglioni sembra sapere con ogni probabilità che se ci sono leadership non hanno maggioranze e se ci sono maggioranze non hanno leadership (né programmi). Ha consultato un ex, Pippo Baudo, e gli ha affidato la ricostruzione storica di tutto ciò che aveva portato a questo Sanremo. Ci lascia un Festival portato a termine tra record e consensi, ma sapendo bene quante divisioni covavano sotto agli applausi. Pure a vincere è un duo, vedete voi. E accanto a chi lottava per un posto sul podio c’erano due governanti bravi, in gamba, simpatici. Ecco, ora, a trionfo ottenuto, l’importante è che Pierfrancesco Favino non si metta in testa di fare un referendum.