La colonna sonora del nostro presente
In tempi ipercinetici, c’è bisogno di una soundtrack permanente. Ma il sottofondo perfetto è anonimo, ripetitivo e rilassante, e Spotify lo sa: ascoltare Nils Frahm
Nils Frahm ha soltanto 210 mila followers su Spotify. Eppure è molto probabile che le vostre orecchie siano incappate in una delle sue composizioni. Potere della playlist. Altro che trap, il suono del nostro presente è un mix di musica classica ed elettronica. Neoclassical, la chiamano i critici musicali, è tipo post rock, ma melodico. Non conta chi la suona, ogni traccia è ripetitiva e quasi indistinguibile dalle altre. Una colonna sonora perfetta per tempi in cui c’è bisogno di una colonna sonora permanente.
Le nostre orecchie sono iper attive: le cuffie sempre su, gli audiolibri, le telefonate, i messaggi vocali: viviamo in un marasma in cui tentiamo di navigare e cerchiamo di rifugiarci - a volte - nella calma della musica. Per questo su Spotify è tutto un fiorire di playlist come “Music for concentration”, “Late night synths and strings” e via dicendo: pace, meditazione, suoni che non disturbano, anzi, ci facilitano mentre siamo occupati a fare qualcos’altro.
L’ultimo disco di Nils Frahm è uscito il 26 gennaio scorso, si chiama (appunto) “All Melody” ed è stato ideato nello studio che lui stesso si è costruito a Berlino. Minimalista, sperimentatore, Frahms nel 2011 registrò “Felt” in una chiesa cadente, dove “poteva captare il suono del suo respiro”. L’anno successivo decise di provare a suonare con sole 9 dita, per comporre “Screws”. “All melody” nasce invece da un bisogno di libertà e assenza di restrizioni. “Voglio riprodurre tutte le melodie”, ha detto.
Nils Frahm è tedesco e ha 35 anni. Intervistato dal New York Times, ha parlato di un suo illustre connazionale, Theodor Adorno, che si chiedeva: “Come posso scrivere una poesia dopo l’Olocausto?”. Attualizzando il pensiero del filosofo della scuola di Francoforte, Frahm si domanda: “In tempi così caotici e ipercinetici, come posso comporre un pezzo calmo suonato al pianoforte?” Un paradosso che non dà merito all’ondata di musica (neo)classica che imperversa su Spotify. Una categoria che tiene e mantiene dentro di sé artisti diversi e variegati, come Frahm, Jóhannsson e - fino a un certo punto - persino la raffinata violoncellista Julia Kent.
Frahm può essere considerato il capostipite di questa corrente. Spesso etichettata come classica contemporanea, mescola loop elettronici e rumori a lunghi assoli di pianoforte: pop contemplativo, come quello di Ólafur Arnalds e Max Richter, che attualizza l’ambient di Brian Eno e lo rende contemporaneo. Artisti che suonano in luoghi sacri della musica classica come il Barbican Center di Londra o la Philharmonie di Parigi e in grandi festival all’aperto di musica d’avanguardia come il Primavera Sound di Barcellona. Un continuo ossimoro, un pendolo che va dal colto al pop, dalla melancolia all’euforia, dai cori alle percussioni, dal piano al sintetizzatore. Tutto sta insieme, perché nell’era del post-tutto la destrutturazione è l’unico completamento possibile. Come l’abbigliamento normcore, come i documentari sul minimalismo su Netflix, il nuovo presente, anche in musica, è un ritorno all’essenziale. Almeno in apparenza, visto che poi si tratta di composizioni piuttosto complesse. Sia dal punto di vista produttivo sia da quello emozionale. “E’ la colonna sonora della mia vita”, disse Ólafur Arnalds a proposito del suo mix per la compilation "Late night tales", che iniziava con una canzone tradizionale islandese: "Ýta Eigi Feldi Rór". Ed eccolo qua, un altro doppio: tradizione e contemporaneità, xilofoni e drum machine.
Mary Anne Hobbs è una presentatrice radiofonica della BBC, ed è conosciuta in Gran Bretagna per la sua inclinazione all’entusiasmo e al supporto che dà agli artisti sperimentali (una sorta di Edoardo Camurri d’Albione), caratteristiche che l’hanno fatta arrivare a dire che “Nils Frahm è l’artista più importante del mondo". Nel 2015 lo invitò a tenere un concerto ai BBC Proms, un festival dedicato alla musica classica. “Oltrepassammo un confine quella sera, mostrando che musica con radici classiche può essere portata a un’intera generazione che vuole viverla, e che può essere reinterpretata in maniera così radicale”.
Frahm, Arnalds, Richter, come Eno prima di loro, sfuggono ai generi, alle etichette, che si cerca di affibbiare loro. Il mondo incasella, definisce, ha bisogno di certezze. Eppure la fluidificazione del consumo musicale ha reso inutile il marchio “di genere”: “Di sicuro c’è solo che sta accadendo qualcosa di grande ed è uno specchio della nostra società: le persone hanno più bisogno di questo tipo di musica contemplativa”, come specifica Ólafur Arnalds.
Dalle loro composizioni si intuiscono però dove stanno ben piantati i loro piedi: più jazz che rock, più Keith Jarrett o Horace Silver che Clapton o i Pink Floyd, “che comunque ammiro molto”, dice Frahm, che ha imparato a suonare il pianoforte grazie a Nahum Bordski, allievo di uno studente di Tchaikovsky. “Non mi piaceva, era noioso, poi capì che avevo bisogno di soffrire per qualcosa di molto bello. E’ questa la mia critica alla nostra società, cerchiamo sempre di cancellare la sofferenza, il duro sacrificio dalle nostre vite, per essere lasciati soli con la bellezza”.
Uno dei pezzi più conosciuti di Julia Kent è Gardermoen. Il titolo prende ispirazione dal nome dell’aeroporto di Oslo. Come a dire che una delle grandi sfide della contemporaneità è la sopravvivenza nei non luoghi. E questa non musica, fatta di atmosfere dilatate e lunghi riverberi, della contemporaneità è la colonna sonora perfetta. Nata per emozionare ma ascoltata per concentrarsi, composta attentamente e tenuta in sottofondo, come distrazione. Poco riconoscibile ed essenziale, neoclassica e pop, eterea eppure permanente, vive di opposti e non riusciamo a farne a meno.