Requiem per una chitarra
La crisi della Gibson, un mondo e una musica che se ne vanno. E c’entrano pure il sesso e l’America
Di tutte le cose che possiedo, la mia chitarra elettrica è quella che amo di più. Me l’ha regalata mia moglie nel 2011, per il venticinquesimo anniversario di matrimonio. E’ una Gibson ES-335 dot rossa, esteticamente una delle più belle mai fabbricate, e il suo suono caldo sa evocare un’infinità di storie piene di viottole, di erba seccata dal sole, di battelli fluviali, di birra e caffè consumati sotto la tenda antistante l’ingresso di un drugstore su una qualunque strada, non necessariamente americana. Non è pastosa come la Les Paul (che pure ho posseduto), non è cattiva come la SG e non è veloce come la Fender Stratocaster. Quieta e ironica come una conversazione tra amici, sa però diventare feroce. E’ stata la chitarra di BB King e la prima di Eric Clapton, per fare due nomi, e tutti noi in età declinante la ricordiamo nelle mani di Alvin Lee, a Woodstock, mentre suona e canta la vertiginosa I’m going home.
Di tutte le cose che possiedo, la mia chitarra elettrica è quella che amo di più. E’ una Gibson ES-335 dot rossa, me l’ha regalata mia moglie
Per tutta la vita, da che ho memoria, ho sognato di possedere una chitarra elettrica. All’età di quattro anni ascoltavo 24000 baci e guardavo in tv l’uomo detto Il Molleggiato piroettare davanti all’obiettivo, ma il mio sguardo si spostava verso un comprimario che portava a tracolla quell’oggetto bellissimo, cromato, lucido, dal suono nasale, appuntito e un po’ provocatorio, come a dire: sta cambiando il mondo, che diritto avete di starvene lì con le chiappe attaccate al divano? Un mondo fatto di baci furtivi, di capelli imbrillantinati, di corse selvagge in motocicletta stava per invadere il mio cervello di pulcino. Il suono della chitarra elettrica sembrava fatto apposta, nelle sue misurate metamorfosi, per confondersi con quello di un autotreno che cambia marcia (Gibson Les Paul), di una motocicletta in corsa (Fender Stratocaster), di un duello tra automobilisti su una strada troppo stretta (Gibson SG), di una nave che si stacca dal porto (Fender Telecaster), di una lunga dritta via sull’argine di un fiume, tra canne di yucca e trampolieri spossati per il caldo (ES-335).
Ora che la Gibson sembra sul punto di essere liquidata e Nashville torna a essere terra arida di musica, è facile cedere alla nostalgia. Gibson e Fender sono immortali, appartengono al genere umano come tale, alla sua evoluzione: dall’australopiteco all’homo sapiens sapiens fino al citaredus gibsonicus dalle gambe arcuate, la barba a pizzo, il cilindro in testa, la bocca disposta a ogni sorta di smorfia (perché il suono ha un corpo, due gambe, una bocca, due occhi, un naso, un pene, e sceglie con cura i propri abiti).
Ma forse è meglio cercare vie meno lacrimose. Per quanto crudele sia, ogni capezzale o funerale ha le sue ragioni.
La chitarra elettrica, innanzitutto, ha radici. Già questo la distingue da altre cose, che invece sono senza radici. Come la lingua (secondo R. Barthes) anche la chitarra elettrica è un po’ fascista. Non puoi portarla dove ti pare, sei tu che – almeno inizialmente – devi andare dove ti porta lei. Una chitarra non si usa, la si esplora, e poiché dietro una grande chitarra c’è sempre la mano di un artigiano scrupoloso ma non geniale, le scelte dell’artigiano determineranno in qualche modo quelle del chitarrista, anche quando saranno scelte sbagliate – perché un artigiano sa fabbricare una chitarra ma non settarla, mentre un chitarrista può settarla solo dopo che è stata fabbricata (merci, Mr. de Lapalisse). Gli stessi pick-up possono produrre infinite sfumature di suono e di carattere a seconda del legno della cassa, del manico, a seconda della vernice usata. Un manico d’acero, uno di palissandro e uno di ebano sono tre cose completamente diverse, anche se montati sullo stesso tipo di chitarra, stessa marca, stesso modello. A tutta questa complessità il chitarrista deve obbedire, prima di potersene servire a proprio piacimento.
Ci troviamo nell’epoca della serialità, della frammentazione e del non-testo: tutto comincia e finisce quando decidiamo noi
Queste radici comprendono gli uomini che l’hanno fabbricata e i luoghi dove è stata fabbricata. Nashville, Memphis, non sono nomi casuali. Siamo sul Mississippi, cuore della mitologia yankee, con la sua Iliade oceanica (Moby Dick) ma anche la sua Odissea fluviale (Huckleberry Finn). Casuale può essere, certo, l’idea capitata in testa a un signore che, un bel giorno, decise di dotare una chitarra acustica di pick-up e attaccarla a un rudimentale impianto di amplificazione. Non so che cosa quell’uomo avesse in testa, ma sono sicuro che il fatto in sé non è decisivo. Anche lo stream of consciousness reso celebre da James Joyce nell’Ulysses fu inventato da Edouard Dujardin (chi era costui) una ventina d’anni prima che il folle irlandese mettesse mano al suo straordinario, illeggibile capolavoro.
Quello che è certo è che, dal medesimo istante in cui quell’invenzione, meglio, quella trovata da retrobottega di meccanico di furgoni ebbe luogo, la neonata cominciò a cercare il proprio perché, ossia la propria casa, il proprio ubi consistam, allo stesso modo in cui noi tutti, una volta nati, corriamo sul filo di una mancanza, di un’assenza.
I primi nomi legati a questo miracolo sono polverosi bluesmen ma anche jazzisti di enorme talento, come Wes Montgomery, il più grande chitarrista jazz. Ma il jazz per la nuova creatura non rappresentò una casa vera e propria. La coppia (chitarra e jazz) condivideva i vizi, fumo droga e alcol, condivideva le cromature e gli alettoni, ma alla nuova figlia mancava la polvere delle strade, che rende opachi i parabrise, e il fango che sporca i cerchioni delle ruote, mancavano le corse notturne e l’afa di fiume, e gli amori nei campi.
Nella immensa epopea del jazz, la chitarra resta un nobile ma sofisticato comprimario. La sua storia si popola di nomi importanti (Montgomery appunto, e poi Scofield, McLaughlin, Marino, Abercrombie, Frisell, Cerri, Towner, Metheny, e tanti altri) ma la chitarra non sarà mai, nel cielo del jazz, una supergigante, a differenza del pianoforte, della tromba, del sax tenore (altra specie in via d’estinzione), del contrabbasso. Anche perché la chitarra è nata per i riflettori, è ambiziosetta e a ragione, non può accontentarsi dei siparietti cui la costringe il suo nemico mortale, qui e poi anche nel rock: il pianoforte, o più in generale la tastiera, un maschio apparente che non sa nascondere le sue isterie femminili e quindi la gelosia verso questa sciamannata malvestita, poco profumata ma vistosa, spesso rossa di capelli e molto sicura di sé.
Così l’ancora giovane creatura migrò più stabilmente in un altro impero, anzi: l’impero se lo creò lei stessa andando a scavare nel mondo nero cui pure il jazz aveva cominciato a introdurla. Diventò prima sbarazzina, piazzandosi al centro del rock ‘n roll, che è come dire un nero travestito da bianco, un nero col frigorifero e il tostapane, mangiatore di burro di arachidi e dai capelli stirati, incapace per sua fortuna di nascondere il proprio retrobottega soul.
Il rock ‘n roll spalancò lo scrigno soul dove riposavano tesori, e lei vi affondò le mani, scoprì il doppio fondo, lo aprì, e di nuovo, improvviso e benefico, ne scaturì il profumo di fiume, di alghe, e ancora di polvere attaccata alle ciglia, di erba disseccata, di fossati fangosi. Il blues, alimentato da antichi sapienti armati di un pezzo di legno con due fili di ferro inchiodati, rilasciò i suoi tesori, e la chitarra elettrica ne divenne la regina incontrastata.
Da questo meraviglioso rosario di nomi (blues, rock’n’roll, soul, rhythm’n’blues) saltò fuori, cavalcando una Gibson o una Fender, il Rock, primo linguaggio universale della musica, occidentale e orientale, eptatonico e pentatonico, capace di contaminarsi con tutto: ritmi latini (Santana), canti celtici (Led Zeppelin), nenie africane (Jimi Hendrix), esperimenti inediti (dai Beatles ai King Crimson). La chitarra elettrica produsse artisti di grande virtù e finezza ma seppe valorizzare anche il talento grezzo e maleducato, la grazia impudente e prepotente di un Eric Clapton o di un Jimmy Page.
La coppia (chitarra e jazz) condivideva i vizi, fumo droga e alcol, ma alla nuova figlia mancava la polvere delle strade
Da questo rosario di nomi (blues, rock’n’roll, soul, rhythm’n’blues) saltò fuori, cavalcando una Gibson o una Fender, il Rock
Alla chitarra elettrica si lega tutto un mondo di eccessi, droga, sesso, alcol, con storie di cameriere violentate, di alberghi devastati, concerti sospesi dalla polizia, incidenti mortali, e tutto questo concorse non già a far prendere le distanze, ma anzi ad alimentare il mito, tanto era il bisogno – e lo è ancora, sia pure sotto la lapide di un potentissimo neoperbenismo – di esplodere, di liberare l’istinto puro, di trasformare uno sfogo anarchico e nemico della civiltà (ne parla Freud nel suo capolavoro-testamento Il disagio della civiltà) in qualcosa di bello, compatibile con l’industria e il mercato, cittadino di un mondo fatto di “cose” vendibili: automobili, frigoriferi, giradischi.
In fondo, sia quando ci riesce sia quando non ce la fa, l’arte non è questo? Portare alla luce, anzi, trasformare in luce la parte buia, la parte nera di noi?
Due considerazioni per chiudere
La prima. La Chitarra Elettrica, questa grande psicoanalista della civiltà tra la fine dei un secolo e l’alba di un altro, è sempre stata freudiana di stretta osservanza, e il suo declino è il declino di tutto un modo di conoscere il mondo fondato sulla sessualità: un mondo dove sedevano sul trono la fica e il cazzo, ossia la chitarra e il sax tenore, non a caso come detto anch’esso ridotto (così pare) all’hospice della musica. E come la sessualità si è complicata di varianti spesso chirurgiche, e ai vecchi metodi si sono sostituite tecniche nuove, e probabilmente – tanto per essere chiari – si scopa meno di una volta, così la musica si va facendo campionatrice: il trono non è più occupato da suoni di prima mano ma su “basi” preesistenti, come a dire che la storia della musica, dal gregoriano a Tupac o a Gérard Grisey, ha già prodotto una quantità di musica sufficiente, che ora si tratta di variare all’infinito. Così che sul trono della chitarra e del sax si è installato il dispositivo di mixaggio, che è per natura ermafrodito e si autofeconda.
Ci troviamo nell’epoca della serialità, della frammentazione e del non-testo: tutto comincia e finisce quando decidiamo noi, possiamo ascoltare mezzo tempo di una sinfonia, leggere un quarto di libro, e i serial ci appassionano proprio perché non vanno a finire, non si compiono, facendo dei personaggi i nostri prigionieri perenni. Domina insomma una nuova Estetica del Rinvio, che nei suoi risvolti più cheap predica che una canzone, un libro o un film possano ottenere il massimo del successo giocando sul minimo dell’originalità: più il nuovo brano del tal cantante sarà uguale a mille altri già sentiti, più è probabile che ottenga il successo sperato: nulla di più lontano dall’Etica Rock, che predica piuttosto l’infrazione di ogni canone, compreso il Canone dell’Infrazione.
La seconda considerazione riguarda l’America. La deriva dei continenti la sta allontanando da noi. La sua grande forza mitopoietica si va esaurendo: ci ha regalato il rock ‘n roll, le auto e le moto cromate, la West Coast, Hollywood, Manhattan, Andy Warhol e la sua factory, ci ha regalato il Profondo Sud, il Piano Marshall, insomma ci ha donato nei decenni una vita desiderabile, più selvaggia, più genuina, meno nichilista della nostra. La chitarra elettrica, nata da un esperimento che forse poteva non esserci, ha preso possesso di questo complesso mitologico, si è impadronita di tutti i Minotauri, le Chimere, le Furie, le Idre che si potevano incontrare durante il Viaggio per eccellenza, coast to coast. Con il mito americano anche noi occidentali abbiamo avuto le nostre icone, la Coca Cola è stata il nostro Andrej Rublëv.
Oggi però l’America è più lontana. E’ vero che il suo parruccato presidente parla come Calderoli, ma quel mondo fatto di poliziotti che sparano ai cani, di poeti nevrotici e iperintellettuali newyorkesi, di stragi nelle scuole e di cene consumate in solitudine davanti al televisore non ci attira più. John Wayne, Harrison Ford ne hanno ravvivato il mito, Tom Hanks non ci è riuscito. Di questa America abbiamo smarrito le radici, e con le sue anche le nostre. In un mondo fatto di pezzetti intercambiabili, o di tessere di puzzle, che c’importa delle Origini? Ma, tolto il mito delle Origini, ossia il Mito, a chi può interessare di faticare ore al giorno con una Gibson Les Paul o una Fender Stratocaster per tornare a farle parlare, a raccontare la loro meravigliosa storia?