Guerra allo streaming
Spotify cresce, la gente ascolta più musica, ma i musicisti sono sempre più poveri
Milano. Il periodo di crisi pare sia passato per quella che un tempo veniva chiamata industria discografica, in quanto basata sul supporto fisico del disco. Pare, appunto.
Questo è almeno ciò che si evince da una rapida lettura del Global music report 2018, il documento consuntivo del mercato discografico globale redatto dall’International federation of the Phonographic industry (IFPI), l’organizzazione che rappresenta gli interessi dell’industria discografica a livello mondiale.
I dati pubblicati qualche giorno fa nel report mostrano un incremento del mercato discografico globale nel 2017 pari all’8,1 per cento rispetto all’anno precedente, crescita che continua da tre anni. In pratica i ricavi totali del 2017 sono stati pari a 17,3 miliardi di dollari. Il motore della crescita è dato dall’aumento mondiale del consumo di streaming: l’ascolto in streaming vale il 38 per cento del mercato e ha avuto un impatto maggiore sia rispetto ai dischi venduti in formato fisico (5,2 miliardi di dollari, il 30 per cento del fatturato) sia nei confronti dei download (2,8 miliardi di dollari, il 16 per cento delle revenue). Tra streaming e store virtuali, dunque, “i ricavi digitali hanno rappresentato per la prima volta oltre la metà di tutte le entrate (54 per cento)”, evidenzia la Ifpi.
Nonostante questo trend positivo, i manager delle case discografiche non sono pienamente soddisfatti e se si guardano meglio i dati si capisce anche perché.
Quest’anno lo streaming (che comprende quello a pagamento, la quota pubblicitaria dello streaming gratuito e quello video) è cresciuto di 1,9 miliardi di dollari. Stesso differenziale rilevato nel 2016 (rispetto al 2015).
Ma proviamo ad analizzare le quantità, ovvero il numero degli abbonamenti: come è noto a tutti con i servizi di streaming on demand (Spotify, Apple Music, Deezer, Google Play Music, eccetera) l’abbonato a pagamento ha accesso illimitato all’intero database di milioni di canzoni pagando un fee mensile. Secondo la Ifpi, gli utenti globali degli account di streaming a pagamento hanno raggiunto 176 milioni alla fine del 2017, quindi con un aumento di 64 milioni rispetto ai 112 milioni del 2016. Quello che è strano è che il numero di abbonati di fine anno del 2016 (112 milioni) è aumentato di una quantità inferiore – in aumento di 44 milioni rispetto ai 68 milioni – degli abbonati registrati nel 2015.
Per riassumere: il numero di abbonati in streaming netti aggiuntivi dei servizi di streaming nel 2017 è stato significativamente superiore a quello registrato nel 2016. Eppure la crescita del fatturato in streaming è stata esattamente la stessa. Questo significherebbe che l’utente medio di un account a pagamento ha sborsato in media 37,50 dollari all’anno nel 2017 (3,13 dollari al mese), mentre nel 2016, quel numero annuale si attestava a 42 dollari all’anno (3,50 dollari al mese).
Come mai questi minori ricavi? Come mai lo streaming a pagamento sta crescendo assai rapidamente, ma l’aumento del fatturato che torna alle etichette e agli artisti non è la stessa?
I prezzi sono rimasti sostanzialmente gli stessi, forse qualche servizio avrà fatto delle promozioni, ma questo non giustifica un gap così vasto. La verità è un’altra, ed è stata scoperta dai giornalisti del sito di settore Music Business Worldwide andando a guardare i conti di Spotify. Analizzando il bilancio del leader del settore dello streaming (157 milioni di utenti, 70 milioni dei quali iscritti alla versione a pagamento) si evince infatti che la società di Daniel Ek ha aumentato il proprio margine lordo dal 14 al 21 per cento: questo significa che una quota del 7 per cento delle entrate di Spotify (pari a 345 milioni di dollari) che un tempo sarebbe andate nelle case delle case discografiche, oggi rimane a Spotify. Quindi un po’ hanno ragione i discografici a non essere pienamente soddisfatti di questa (virtuale) crescita di mercato.
Spotify, fresca di quotazione a Wall Street, ha previsto una crescita delle proprie entrate del 20-30 per cento nel 2018. Il futuro per la società di Daniel Ek è radioso, mentre per gli artisti e le case discografiche un po’ meno.