Pippo Caruso, il nome e cognome che fanno il romanzo della levità d'Italia
Il maestro di Sanremo e di mille canzoni, l’altra metà di Baudo
Sempre nel ruolo di se stesso, il maestro Caruso – 82 anni – è sempre in quello stare calmi quando si fa l’amore. Nella postura di tre quarti, erto a dominare il golfo mistico del teatro Ariston, dirige l’orchestra col baffo, col pizzo e con l’onda moschettiera dei suoi capelli accuditi da un mastro barbiere. Il maestro Caruso, con la musica che è “sempre quella che è”, ci fa un litro di minestra e un fiore rosso che va a piegarsi in fondo a un fosso. E in quel “menomale del l’è semper là” – giusto a Sanremo – il maestro, nel ruolo di se stesso, dal palcoscenico delle canzoni d’Italia si gode un treno in riva al mar.
Come uno studente sedotto e abbandonato, con l’Olanda che gira perché l’America l’è granda pussè de le’ e perché un “bel poster da dottore”, come canta la sua canzone, “vale più che imparare il ‘belga’ dal babbo minatore”, il maestro Pippo Caruso – se la musica c’è – sa farla cantare. Anche a essere solo in tre (massimo in quattro).
In tre sono, infatti, con Enzo Jannacci e Giuseppe Baudo, a far esplodere il ritornello di “Secondo te, che gusto c’è”. E lui – forgiato dalle serate di musica nelle navi da crociera dirette ai Caraibi – in ogni tasto trova, col suono, la montagna delle piccole cose. Menomale che c’è sempre lui, elegantissimo – e compito, come da educazione ricevuta da Dumas – e l’amore è per come lo cantano Lorella Cuccarini e Alessandra Martines. Un grande successo “L’Amore è”. Un mondo di progetti fatti, rifatti & disfatti: musicarelli fabbricati dalle sue dita di maestro, artefice di un lungo viaggio di piccoli passi cominciati a Belpasso – dove nasce – per transitare sulle navi, da musicista sugli Oceani, e arrivare a Roma. Baudo lo fa partecipare al concorso in Rai nel 1973 e il maestro – nel ruolo di se stesso – trova podio e bacchetta, inanella ben dodici edizioni del Festival e azzecca la chiave che apre, chiude e perpetua ogni edizione: “Perché Sanremo è Sanremo”, è un jingle suo. Suo è il varietà: “Fantastico”, “Domenica In”, “Serata d’Onore”, “Numero Uno”, “Canzonissima”. Ed è un sollevarsi dalla ressa con orecchio sognante.
Sua è la metà di una coppia formidabile: Pippo Baudo. E nessuno ha idea dove può arrivare l’amicizia, e come può completare – nell’intesa, nella lesta messa in opera – un sentimento bisognoso solo della tagliente accetta dell’ironia. Il cercarsi nello scrosciare rapido degli applausi dei due non è un sodalizio, è lo scorrere di memorie, voci, fatiche e scoperte. E valigia: la ventiquattrore dove allocare pigiama, cambio, camicia, pettine e dopobarba per la notte in vagone letto da Catania alla Stazione Termini. Suo è “Johnny il Bassotto” cantato da Lino Toffolo nell’animazione di Bruno Bozzetto, sua anche la “Tartaruga” ed è un maestro capace di ogni maestria – per grandi e per piccini – il maestro che con la parola Pippo, e la parola Caruso, messe insieme, intrecciate in un nome e in cognome, fa il romanzo della levità d’Italia. La levità è d’obbligo. Come nella chiesa Santa Croce di Passo Corese, una frazione della reatina Fara in Sabina, dove col suo baffo, e il suo pizzetto, il maestro Pippo Caruso, chiamando tutti al proprio funerale, ha detto: “Il mio destin non cambierà”.
Universalismo individualistico