Daniil Trifonov (a destra) (foto LaPresse)

In viaggio nei paradisi perduti con lo “sconcertante” Daniil Trifonov

Mario Leone

Fino a sabato a Santa Cecilia il giovane pianista russo

Roma. Arriva a Roma Daniil Trifonov. Lo fa dopo gli “sconcertanti” concerti solistici di Milano (presso la Sala Verdi del Conservatorio, stracolma di giovani) e al Maggio musicale fiorentino. Nella Capitale – da oggi a sabato – non suonerà solo ma in compagnia dell’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta da Sir Pappano. Una scelta un po’ inaspettata anche nel programma, che prevede il Terzo concerto per pianoforte di Sergei Rachmaninoff, pur avendo da poco inciso per Deutsche Grammophon il Secondo e il Quarto del grande compositore (si va verso un’integrale dei concerti per pianoforte?).

 

Il pianista russo accompagna ogni sua esibizione con l’alone di mistero, trascendenza e intaccabile riserbo che sono il tratto tipico della sua persona. Lui che a soli ventisette anni è la stella indiscussa del pianismo internazionale, artista capace di reggere l’urto del successo che si spalanca dopo le affermazioni a concorsi prestigiosi – e che qualche volta può determinare la fine di una carriera, non l’inizio – come lo Chopin di Varsavia (terzo premio) o il primo premio al concorso “Arthur Rubinstein”.

 

Ma chi è Daniil Trifonov? E’ prima di tutto un interprete, che ricorda molti nomi ma non è nessuno di essi. Un fine ricercatore che suona dal vivo cercando la perfezione della registrazione in studio e registra in studio cercando l’immediatezza del recital con il pubblico in sala. Non insegue la perfezione in tutto e per tutto, ma è più attento a custodire una spontaneità che non perda la forma, il contenuto e il messaggio intrinseco dell’opera. Il suo modo di suonare è contraddistinto da piccoli sospiri, dalla ricerca di una vera voce dello strumento, incapace come pochissimi di essere stucchevole o melenso.

 

Trifonov così mantiene la sua personali8tà e il suo originalissimo scavo stilistico fatto di freschezza e trasparenza. Capace di tirare dalla tastiera, con disarmante eleganza, una varietà infinita di nuances. Tutto questo grazie a una perfetta tecnica di dito che unisce leggerezza digitale ad affondo del tasto. Daniil fa cose uniche. Una di queste è far cantare il pianoforte tra il pianissimo e il mezzo piano quasi superando l’aspetto percussivo della tastiera, riuscendo così a raggiungere un’intensità espressiva altissima ma evitando un’enfasi che risulterebbe inappropriata. Una tavolozza infinita di colori che pochi nella storia di questo strumento hanno mai palesato. I suoi detrattori lamentano l’eccessiva gestualità, alcuni accentuati piegamenti verso la tastiera, un manierismo di facciata che costruisce il personaggio. Troppo forzate le letture di alcune partiture (la velocità con cui stacca i tempi dell’amato Chopin). Un pianista bravo ma non da impazzire. I pazzi sono loro o forse sono sordi. In ogni caso non hanno capito nulla. Nei concerti “italiani” che qualche riga sopra abbiamo definito “sconcertanti”, l’impaginato prevedeva Beethoven e Schumann. Sarebbe bastato accorgersi del cambio di suono tra i due autori per capire la statura del personaggio. Sembrava stesse suonando su due strumenti completamente diversi. E poi il fraseggio, i tempi vorticosi, i sussulti, gli spasmi, i silenzi. Ha portato il pubblico dove voleva, negli abissi e nei paradisi perduti, avanti e dietro nel tempo. Il pubblico lì, in implorante ascolto. In silenzio, pieno, magari ritrovando per qualche ora se stesso. Diavolo di un Trifonov. Giovane eroe in lotta con qualcosa di granitico e stantio, serio conoscitore della tradizione ma aperto al futuro, all’imprevisto all’eccezionale. Lui che ci lascia sconcertati perché rivendica il diritto di parlare in prima persona, di dire “io”.

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