La cometa Bortolotto
Il viandante musicale tra i grandi saggisti del Novecento italiano. Roberto Calasso ricorda la sua unicità
[Mercoledì 7 novembre un incontro organizzato dall’Accademia di Santa Cecilia a Roma ha ricordato a un anno dalla scomparsa la figura di Mario Bortolotto. Nell’occasione è stato anche presentato “Il viandante musicale”, un volume di saggi di Bortolotto recentemente edito da Adelphi. Pubblichiamo in questa pagina l’intervento di Roberto Calasso. Con lui, alla tavola rotonda presieduta da Michele dall’Ongaro, c’erano Giuliano Ferrara e Giorgio Pestelli].
Venendo qua, in questa istituzione che era molto cara a Bortolotto, mi sono chiesto innanzitutto: ma com’è che parlerei di Mario Bortolotto a uno straniero che non sapesse ancora nulla di lui? Solo una cosa: non gli direi mai che era un critico musicale, non gli direi che era un musicologo. Gli direi che era un grande saggista. Un grande saggista che oltretutto apparteneva ed era eminente in una costellazione di grandi saggisti, che credo sia una delle vere glorie dell’Italia nel secolo scorso. Se uno pensa retrospettivamente, forse la gloria maggiore. Perché la letteratura italiana per il resto è stata fatta da grandi isolati: Svevo, Gadda, Landolfi… esseri che valgono ciascuno per sé. Invece, nella saggistica si è creata una costellazione, abbastanza impressionante, senza equivalenti precisi fuori dall’Italia: è difficile trovare in Francia, in Germania, in Inghilterra qualcosa di simile.
Allora, venendo qua ho pensato a una specie di mappa celeste di questa costellazione. Il risultato – è qua su un foglio che non vi farò vedere – sono ventisette nomi… tantissimi, ventisette nomi ai quali con fatica aggiungerei o toglierei qualcuno. Non vi dirò quali sono, ma vi dico gli estremi. A un estremo Giorgio Pasquali – e aleggiante su tutti, ovviamente, come su tutto il Novecento, Benedetto Croce, perché la prosa di Croce è una delle grandi cose del Novecento. A un altro estremo Cristina Campo. Giorgio Pasquali è la filologia, nel senso più rigoroso della parola, unita alla stravaganza di chi sapeva scrivere anche pagine come quelle che si ritrovano nell’Orazio lirico, nelle Stravaganze, pagine che vanno ben oltre la grande filologia, che comunque era il suo ambito. All’altro capo Cristina Campo, che non è mai andata a scuola, che ha avuto la fortuna di non avere nemmeno la terza media, perché un vizio cardiaco le aveva impedito di andare a scuola. Se questi sono i due estremi, due figure care entrambe a Bortolotto, al centro ci sono quelli che io chiamerei i due immacolati della cultura italiana: Gianfranco Contini e Roberto Longhi. Immacolati perché nessuno ha mai osato scalfire anche minimamente la loro figura. Intorno a loro molti altri, alcuni dei quali particolarmente cari a Bortolotto, e tali che la sua prosa deve mescolarsi alla loro per essere veramente ben capita.
Per fare un esempio, Bortolotto è un evidente maestro di un’arte difficilissima, che è l’ecfrasi musicale, così come Longhi lo è stato dell’ecfrasi pittorica, a rigore forse più accessibile, perché la musica non appartiene al visibile, ma l’intento era lo stesso: sulla base di un’analisi feroce, puntuale dell’oggetto, musicale o pittorico, arrivare poi a questa formulazione definitiva, felice.
Eminente in una costellazione che è stata una delle glorie dell’Italia nel secolo scorso. Al centro gli immacolati Contini e Longhi
A questo punto già questo straniero saprebbe dove si trova: si guarderebbe intorno, troverebbe da una parte tanti altri che Bortolotto ha molto ammirato. Dico i primi nomi che mi capitano sotto l’occhio: Manganelli, Praz, Ceronetti… unico critico musicale, Confalonieri (di tutti questi ventisette, l’unico critico musicale). E poi ancora Solmi, Debenedetti, Garboli. E anche alcuni dei grandi scrittori narratori. Perché sia Gadda sia Landolfi sia Calvino hanno anche una parte saggistica rilevantissima, che appartiene a questa costellazione. Qual è però la differenza specifica di Bortolotto rispetto a tutti questi? E’ l’unico che abbia osato seguire fino all’estremo quel sommovimento delle forme che parte con la Romantik e forse finisce con Stockhausen. E che comunque è sempre in atto, perché non può che essere così: si tratta di vedere chi lo coglie. Questo lo ha solo lui. Anche Longhi e Contini quando giungevano a parlare della zona più vicina al Novecento non davano il meglio di se stessi.
Per capire Bortolotto ci sono due parole fondamentali, da cui discende tutto il resto. Sono due parole che non si traducono bene in italiano: una è Romantik, l’altra è décadence. E sono da intendere in un modo preciso: Romantik non è il romanticismo che ci spiegava il professor Walter Binni. No, è quella cosa che nasce e si sviluppa solo in Germania. Nasce dall’Atheneum, da Novalis, da questi esseri, geniali ovviamente, che sono all’origine di quel sommovimento totale che non è solo delle forme ma di tutto, e che poi è emigrato in altri paesi. E décadence non è quella cosa che in Italia si chiama decadentismo, e nemmeno la décadence francese. E’ décadence all’interno di Nietzsche, è ciò che Nietzsche intende con questa parola. Quando dice in Ecce homo “Io sono inizio e décadence al tempo stesso”: questo è il senso della parola. Bene, queste due parole occupano tutto lo spazio in cui ha vissuto e ha elaborato i suoi scritti Bortolotto dall’inizio alla fine. A ben guardare, Bortolotto ha scritto come se la musica cominciasse dal Lied. Da quando l’ho conosciuto vagheggiava di scrivere un libro su Gesualdo, ma non l’ha mai scritto. Non ha mai scritto profondamente e con profonda dedizione su altri. Su Bach, per esempio, ha scritto uno dei suoi saggi più difficili da leggere, credo, ma è D’après Bach: cioè, ciò che è avvenuto sulla base di Bach. Ma su Bach non ha mai scritto. Perché? Perché era totalmente interno a queste due parole.
Per capirlo fino in fondo, però, bisogna vederlo in atto. Bortolotto è stato spesso accusato di essere molto difficile da leggere, cosa anche vera, perché presuppone che chi legge sia già dentro la cosa di cui lui parla. Eppure, una volta che si è dentro quella cosa, non solo non è difficile, ma è di una stupenda chiarezza. Per fare un esempio, partirò da un passo che si trova nel Viandante musicale, che è la prima frase di un saggio importante, del ‘64, Comédie à tiroir. Ve la leggo. E’ proprio l’inizio: “L’azione entro il negativo e sul negativo, la conclusione del ciclo romantico cui mira la Nuova Musica, reca su sé anche il sapore allappante di ‘esperienza’. E già Nietzsche aveva implacabilmente osservato: ‘esperienza significa sempre, almeno mi pare, triste esperienza’”. E’ legittimo chiedersi di cosa stia parlando, però, ve lo posso dire per esperienza diretta, dietro questa frase metterei tre viaggi in Germania che abbiamo fatto insieme. Uno nel ‘61: eravamo in tre di fatto, Bortolotto, Donatoni e io, a Darmstadt, per un memorabile Darmstadt. Fu il Darmstadt dove Adorno lesse Vers une musique informelle, fu il Darmstadt culminante, in un certo senso, non ci fu mai un anno così ricco, così apparentemente felice e grandioso: in realtà roso da un tarlo, come vedremo. Le cose si presentavano ancora in modo molto diverso da come oggi uno le immagina. Per dare un’idea, quando arrivammo, non andammo in albergo. No, stavamo in un ospedale, nuovo di zecca: era un magnifico ospedale tedesco dove ancora non era entrato nessuno, né malato né medico, e che era usato per ospitare alcuni invitati. Ricordo con terrore la stanza dove dormivo con Donatoni – Bortolotto stava nella stanza accanto. I letti erano come macchine da guerra, dovevano essere per malati gravissimi… salire su questi letti era una fatica ogni notte. E ricordo ancora Donatoni, dall’altra parte della stanza, immobile, lo sguardo fisso… Ecco questo era lo stato di Darmstadt allora. In mezzo a un’euforia generale, perché erano giorni grandiosi, dove ogni giorno succedeva qualcosa. Qualcosa di memorabile. Questo nel ‘61, e a quel punto la Nuova Musica è ancora al suo apice, si può dire, però ha un tarlo, un tarlo che viene dagli Stati Uniti, viene da Cage, da Wolff, da Feldman. E’ un tarlo che si chiama alea e che mette in dubbio la perfezione che la Nuova Musica nel suo stato puro presuppone.
Passiamo all’anno successivo: nel ‘62 insieme a Bortolotto andiamo a Colonia per la prima di Momente. La prima avviene così. Arriviamo presto, nel pomeriggio, e assistiamo alle prove di Contrapunkte. Contrapunkte è forse il canone della Neue Musik, un’opera del ‘53, struttura perfetta, non migliorabile. E’ la Neue Musik allo stato puro, esclude ogni altra via e segue la propria. Nel pomeriggio l’abbiamo ascoltata, ben felici perché non è un’opera facile. Poi è arrivata la sera: Momente. Bè, credo che fu uno dei rari choc che possono capitare nella vita di chi ascolta. Nel momento stesso in cui abbiamo visto gli orchestrali che cominciavano loro a battere le mani, e Martina Arroyo che al centro iniziava a emettere quel suo riso trafittivo, abbiamo capito che stava succedendo qualcosa di irreparabile. Cioè la Nuova Musica tentava di distruggere se stessa. E Momente è un’opera capitale perché è fatta di due parti completamente opposte: una è la musica qual era sempre stata, che si manifesta anche con degli ottoni che Bortolotto aborriva, perché gli ricordavano nientemeno Orff, peccato mortale ovviamente. Dall’altra c’era questo sfregio che andava sulla musica stessa con tutta la potenza dell’invenzione di Stockhausen, all’interno della stessa composizione. E poi c’era questo teatro che esplodeva, nella voce di Martina Arroyo, nei suoi gesti, nella gestualità che apparteneva a tutta l’opera. E lì si è capito che qualcosa si era rotto, e si era rotto per non accomodarsi mai più. Abbiamo avuto questa sensazione immediatamente, però non ce la siamo detta fino in fondo perché dispiaceva a tutti, innanzitutto a lui che aveva puntato tutto sulla Nuova Musica. Passiamo all’anno successivo e andiamo insieme a Monaco. Prima esecuzione di Sur Scène di Kagel. Uomo adorabile, Kagel nel frattempo era arrivato come un possibile post Stockhausen… Devo dire che sono felice di questa occasione, oggi, perché mi ha dato il modo di riaprire le lettere, le moltissime lettere, più di 150, che Bortolotto mi ha scritto nel corso degli anni, e soprattutto in quegli anni. La prima comincia così: “Ho appena ricevuto una lettera da Kagel, che mi prega di andargli in aiuto, perché Riedl e le Jeunesses musicales hanno deciso di non invitare più Rzewski perché sostengono che abbia strangolato un gatto sulla scena per ispirarsi a Palermo. Io scrivo una lettera – non è un manifesto per Cuba… Tu eri presente, scriviamo qualcosa, se no il povero Rzewski non potrà più suonare. Questa cosa l’hanno inventata…”. Questo era un po’ il clima di quegli anni.
Il memorabile incontro con il Professore e la Signora (Roberto Longhi e Anna Banti). “Perché Adorno si dà tante arie?”
Ma torno a Sur Scène: vediamo questa cosa – devo dire, pensandoci oggi, tremendamente deludente – di un musicista pieno di talento che tentava di fare ciò che allora si chiamava teatro musicale. Questo spiega perché Comédie à tiroir abbia quel sottotitolo quasi imbarazzante, “Sulle urgenze mimetiche della Neue Musik”. Ora, non è il linguaggio di Bortolotto: le urgenze mimetiche non c’entrano, sono cosa più da sociologhi. E’ l’imbarazzo, la drammaticità di questa situazione che viene fuori dal sottotitolo. Urgenze mimetiche vuol dire che la Nuova Musica non riusciva più a reggere a se stessa e aveva bisogno di quella che chiamavano allora gestualità. Era il segno della fine. Però, quando scrisse Comédie à tiroir, non era ancora convinto che fosse la fine. Poi due anni dopo scrisse un altro saggio, Un paradisus interruptus, in cui si capisce che non si va oltre.
Vedete da questo come si intrecciano le cose. Se uno legge all’interno di Comédie à tiroir le frasi che riguardano quello che dicevo prima, vede che è tutto molto chiaro già, senza possibilità di equivoci. Dice: “Stockhausen, almeno lo Stockhausen fino alla svolta di Momente, conclude la lignée sacra, la gran parabola della decadenza. Essa si iniziò con la prima generazione romantica, quando l’arte alla fresca ferita della realtà industriale nuova reagì con il bivalente anticorpo, il Kitsch…”. Perciò era già tutto chiaro allora, anno 1964. Poi che cosa succede? Bortolotto aveva una visione fulminante – credo – di che cosa sarebbe potuto succedere nella musica, una visione che andava molto oltre quella dei compositori stessi. Mentre una triade italiana – magnifica, devo dire: Donatoni, Clementi, Evangelisti – pensava e si scervellava sulla possibilità di un superamento nientemeno che del sistema temperato, Bortolotto pensava un’altra cosa: che la parola fondamentale fosse Zeit, il tempo, lo Zeit di Zeitmaße e Wie die Zeit vergeht di Stockhausen. Ho ritrovato nelle sue lettere un passo su questa sua concezione che lascia sbalorditi, perché dice quello che lui stesso ha detto solo poche volte: “Non credo sia possibile desumere, per esempio da Stockhausen, un certo modo di procedere – intervalli, ritmi, rapporti tra gli strumenti ecc. – senza accettare la concezione spaziale: in ultima analisi, il tempo istante che si appella all’eterno proprio attimo per attimo, il tempo fisso senza progetti e intenzioni, il tempo che può fulminare, cioè il tempo di cui non siamo i padroni – questo si capisce – e neppure i pastori, amministratori delegati, o checchessia, invece il tempo senza piani in cui il piano è già quello predisposto per la nostra salute, oppure no, per la perdita, e che perciò fuori dalla teologia, cioè dal punto di vista dell’artigiano, è solo quello della sovrapposizione di eventi o di circuiti che si serrano e non ammettono né sviluppo né futuro”.
Detto questo, è toccare il punto in cui Bortolotto si distacca anche da quella magnifica mappa celeste di cui parlavo prima. Perché nessuno di quei ventisette ha osato tanto. Si sono tutti fermati un po’ prima. Alcuni alla musica fino a Mahler, altri in altre zone, non solo per la musica ma per tutto.
E’ stato l’unico che abbia osato seguire fino all’estremo quel sommovimento delle forme che forse finisce con Stockhausen
Per aggiungere infine una nota un po’ lieve, un po’ da vaudeville a tutto questo, vorrei leggere come avvenne il memorabile incontro tra Bortolotto e la coppia formata dal Professore e la Signora. Cioè Roberto Longhi e Anna Banti. Bortolotto aveva pubblicato il suo celebre saggio su Intolleranza, su Paragone, e finalmente li conosce. E mi scrive una lettera, che vi leggo perché parla da sola. Arriva finalmente a incontrarli. “… Rimasto annichilito dalla sontuosità dei mobili, quadri ecc. Detto un ‘che bel Preti!’, ‘che bel Fra Galgario!’ che mi valse di colpo l’affetto del professore, restammo circa un’ora e mezzo a chiacchierare. Ho visto la rivista, non ancora comparsa, e mi sono assicurato che dedica e epigrafe kafkiana sussistono. Signora e professore, devo dire, più che amabili. Temi di conversazione: narrativa italiana contemporanea, con speciale riguardo ai Finzi Contini. Meraviglie del loro nuovo comitato di redazione, in cui la signora ebbe molta pena a far entrare anche Arbasino. Poi Arbasino stesso, del quale sentivo meraviglie, e quando il tono era salito al climax, si affrettarono a informarmi: è uno di quelli – anzi: dell’altra parte. Inutile dirti che hanno aggiunto: questo però non interessa, sono cose sue. Il nome di Djuna Barnes che ho fatto destò un attimo di penoso silenzio. Poi si parlò della televisione. Che vedono sempre. Di cui sanno tutto: invecchiamento di Mike Bongiorno, interviste di Silori, ecc. Il professore notò alcuni sbagli grossolani nella presentazione di certi capolavori. E dire che i programmi andrebbero molto migliorati. Mi chiesero poi perché Adorno si dà tante arie”. Questa è la battuta finale. Grandi saggisti, ma siamo in Italia, siamo a Firenze, e a Firenze ci si chiede perché Adorno si dà tante arie.