La rivoluzione del White Album
Cinquant’anni fa usciva il capolavoro dei Beatles, geniale esplosione di generi musicali. Le note psichedeliche e poi la follia di Manson
It’s been a long, long, long time. E’ trascorso un tempo lungo, lungo, lungo. Cinquant’anni, per la precisione. Così cantava George Harrison in una delle più preziose e misconosciute tracce di un disco che fece la storia della musica e non solo. Era il novembre del 1968 quando i Beatles pubblicarono il loro unico album doppio. Casa di bambola, doveva chiamarsi con un omaggio a Ibsen. Ma una band dell’epoca fu più lesta a pubblicare un disco con quel nome. E così, il quartetto che un anno prima aveva spiazzato la scena musicale con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e con la sua variopinta copertina piena di facce e colori, optò per un essenziale The Beatles come nome del disco, una copertina tutta bianca, con scritta in rilievo bianco su bianco. Un doppio praticamente senza nome che divenne subito per tutti il White Album e che assunse, in certo modo anche suo malgrado, il valore di una pietra miliare nell’intensa storia del decennio. Con la sua esplosione nervosa di generi musicali e di individualismi a tratti confliggenti, con i suoi versi così lontani dalle innocue parole d’amore della Beatlemania degli anni passati, con le sue sfumature psichedeliche, l’Album Bianco quasi cancellò con un colpo di gomma l’atmosfera variopinta dell’anno precedente, il 1967 della “summer of love”, quel ’67 che aveva visto il quartetto di Liverpool incidere in mondovisione un ideale inno planetario dell’amore, All you need is love. Ma nel novembre del ’68, tutto era cambiato. Dentro la band e nel mondo. E l’Album Bianco lo raccontò, divenendo una sorta di bibbia rivelatrice per i folli piani di Charles Manson e della sua Family, la setta hippy che l’anno successivo consumò i suoi celeberrimi ed efferati crimini, tracciando con il sangue delle vittime le parole tratte dal disco dei Beatles.
L’album cancellò l’atmosfera variopinta dell’anno prima: il ’67 di “Sgt. Pepper”, di “All you need is love”, inno planetario dell’amore
Si apre un’epoca di inquietudini. I titoli di due canzoni del disco scritti sulle pareti con il sangue delle vittime del massacro di Cielo Drive
Il 9 novembre scorso è stata pubblicata un’edizione del cinquantenario per celebrare la ricorrenza. I collezionisti la hanno attesa con trepidazione. Pezzo forte della pubblicazione sono i celebri Esher Tapes, cioè le registrazioni unplugged dei 27 demo da cui venne fuori il disco, eseguite a Kinfauns, casa di George Harrison a Esher, nel Surrey, nel maggio del 1968. Tanto materiale, troppo per un disco solo, in buona parte frutto del periodo trascorso in India, a Rishikesh, a meditare al seguito del guru Maharishi Mahesh Yogi.
Il produttore George Martin suggerì all’epoca una scrematura, per tenere solo il materiale sufficiente a un disco di eccelsa qualità. Ma John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr reclamavano spazio, sempre di più. E presto si decise che i Beatles avrebbero pubblicato il loro primo album doppio. Quello che sarebbe diventato il loro più grande successo in America, quello che la rivista Rolling Stone avrebbe inserito nel 2012 al decimo posto della lista dei 500 migliori album di sempre: The Beatles, appunto, il White Album.
Dentro ci finì davvero di tutto. Chiusa da due anni la stagione dei concerti in giro per il mondo che aveva portato i quattro a vivere in simbiosi per buona parte dell’anno, i Beatles avevano sviluppato sempre di più ognuno una propria strada, artistica ed esistenziale. Ed è in questo disco che i Fab Four diventano meno band in senso tradizionale, ognuno segue il proprio percorso utilizzando i soci come esecutori del proprio progetto musicale. Le testimonianze raccontano anche di sessioni nervose, d’altronde la band – ancora traumatizzata dall’improvvisa e prematura morte del manager Brian Epstein – si sarebbe sciolta da lì a un anno e mezzo. Persino il mite Ringo, il più paziente e amicone del gruppo, arrivò a non poterne più tanto da mollare la band in quelle settimane. Mancò per qualche giorno, lo riaccolsero facendogli trovare i fiori sulla batteria e un messaggio di bentornato, ma in quei giorni d’assenza per registrare due canzoni, che poi furono le prime due nell’ordine del disco (Back in the Ussr, ispirata agli amici Beach Boys, e Dear Prudence), ci pensò Paul a suonare la batteria al suo posto.
Se nervosismo e caos furono la cifra della genesi del Doppio Bianco, ne divennero anche in un certo senso il punto di forza. Il doppio è infatti un lunghissimo e variegato viaggio in generi musicali diversi, dal rock psichedelico al country folk, dal jazz alla musica da camera, dal blues al rock and roll, una miscellanea travolgente. Con musicisti “ospiti” di rilievo, su tutti Eric “Mano lenta” Clapton, che impreziosì con il suo assolo la While my guitar gently weeps dell’amico Harrison, quando ancora fra i due non si era messa di traverso la passione per la splendida Pattie Boyd, moglie di George che diventerà la donna di Clapton.
Ci sono i pezzi costruiti sulla chitarra suonata con il finger picking che in India i Beatles impararono dal musicista Donovan, come Dear Prudence, dedicata alla sorella di Mia Farrow che faceva parte della compagnia indiana al seguito del santone, e Julia, la struggente canzone d’amore composta da Lennon per la madre morta quand’era ragazzino, in cui John sovrappone alle immagini poetiche dedicate alla mamma anche l’epiteto di “figlia dell’oceano”, significato giapponese del nome Yoko, la nuova onnipresente compagna, che comincia a fare capolino in sala d’incisione in quel periodo. C’è il rock pesante, pesantissimo, di Helter Skelter, quello che più di tutti ispirò la follia di Manson, con un McCartney scatenato e il leggendario grido finale di Ringo che lamenta di avere le vesciche alle dita. Il testo parla di un ottovolante, nella mente distorta di Manson divenne tutt’altro.
C’è poi, a chiudere il disco, la dolcissima ninna nanna Goodnight, composta da Lennon per il figlio di cinque anni Julian e ceduta alla voce calda di Ringo, accompagnato da un’orchestra volutamente sdolcinata e hollywoodiana.
E a proposito del batterista, c’è anche la prima canzone firmata da Ringo, Don’t pass me by. C’è lo sberleffo al santone indiano scritto da un Lennon disincantato, che appellandolo Sexy Sadie gli chiede come abbia fatto a fare fessi tutti quanti. E c’è il testo dissacrante di Piggies di George Harrison contro il materialismo dilagante in cui gli uomini vengono descritti come maiali che con forchetta e coltello mangiano il bacon. Rimandi espliciti a questa canzone vennero trovati in tutte le scene dei crimini commessi dalla setta di Manson nell’agosto 1969.
I Beatles erano cambiati. I tempi dello yeah yeah yeah, distanti in realtà solo cinque anni, erano quasi un’altra èra geologica ormai. Nei testi del Doppio Bianco si trovano riferimenti alle armi, alla felicità che è una “pistola calda”, cantava in Happiness is a warm gun Lennon che di lì a dodici anni da una pistola sarebbe stato ucciso, agli impulsi suicidi di Yer Blues, ai fucili di uno strampalato cacciatore, Bungalow Bill, alle sparatorie western di Rocky Racoon. Ci sono i riferimenti al sesso, con l’esplicito invito di Paul Why don’t we do it in the road?, ma anche al mondo giovanile confuso e in subbuglio, con la Revolution di un Lennon interessato ma perplesso (“Ma se vai in giro portando le foto di Mao Tse Tung, non ce la farai mai con nessuno e in nessun modo”).
Nell’edizione del cinquantenario le registrazioni unplugged dei 27 demo da cui venne fuori il disco, eseguite a casa di George Harrison
Sessioni nervose: ognuno segue il proprio progetto musicale. Una miscellanea travolgente, con ospiti di rilievo, su tutti Eric Clapton
E sì, perché se i Beatles in quel ’68 erano cambiati, tanto era cambiato nel mondo attorno a loro. In Vietnam sono tempi durissimi, gli americani subiscono a inizio anno l’offensiva del Tet, che imprime una drammatica svolta al conflitto. Ad aprile viene assassinato a Memphis Martin Luther King, a giugno a Los Angeles Bob Kennedy. Disordini e violenze si diffondono nell’ambito delle proteste studentesche in Italia, Francia, Germania. Le tensioni razziali negli Stati Uniti vengono simboleggiate da un’immagine che fa la storia, a ottobre durante la premiazione dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico, quando gli atleti americani Tommie Smith e John Carlos alzano al cielo un pugno guantato di nero, simbolo del movimento delle Pantere Nere, per porre l’attenzione sul problema delle discriminazioni. Quelle Pantere Nere presso le quali diventerà popolare, quasi un inno, proprio una delle tracce dell’Album Bianco, Blackbird, ballata di McCartney che parla di un merlo ma forse – raccontò lo stesso autore anni dopo – di una ragazza nera che vuole mettere le ali e riprendersi la libertà.
Il bianco del doppio dei Beatles, insomma, azzera i colori variopinti di Pepper’s e di Magical Mistery Tour, i due precedenti dischi, i colori accesi del ’67, dell’amore universale e dell’ottimismo, introducendo idealmente in quell’ultimo scorcio di anni Sessanta in cui la spinta di positività si esaurirà, per traghettare i giovani, di cui i Beatles erano stati icone e modelli, verso un’epoca nuova, di smarrimento e inquietudine. Il passaggio finale si consumerà di lì a poco, nel 1969, nell’agosto di Woodstock, che fu forse il capolinea con i giochi d’artificio dell’utopia del peace and love, giungendo solo una manciata di giorni dopo il massacro di Cielo Drive, Los Angeles, quando la “Famiglia” dei seguaci hippy di Manson massacrò l’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, all’ottavo mese di gravidanza, e altre quattro persone. Era la notte tra l’8 e il 9 agosto. L’indomani altri due brutali assassini della Family: Pasqualino “Leno” LaBianca e la moglie Rosemary furono trucidati con decine di coltellate nella loro villa di Los Feliz, sempre a Los Angeles.
In quella tremenda estate del 1969 erano proprio le note del White Album a rimbombare nella mente malata di Manson, il killer morto a novembre dell’anno scorso dopo 47 anni di detenzione. Con il sangue delle vittime furono scritte sulle pareti “Helter Skelter” e “Piggies”, titoli di canzoni del disco. Che Manson, musicista incompreso con numerosi precedenti penali e abilità da manipolatore, aveva acquistato poco dopo l’uscita, alla fine del ’68. Durante le sedute con i suoi adepti diceva che l’opera dei Beatles “gli stava parlando”, indicandogli profeticamente una apocalisse ventura. I Beatles nella sua mente divennero così i quattro cavalieri dell’apocalisse che preannunciavano uno scontro razziale tra bianchi e neri. E quando nel 1988, vent’anni dopo l’uscita del Bianco, gli U2 inserirono la loro cover di Helter Skelter nel disco Rattle and Hum, Bono Vox introdusse il pezzo, registrato live negli Stati Uniti, con una puntualizzazione: “Questa è una canzone che Charles Manson rubò ai Beatles. Noi ce la riprendiamo”.
Non potevano certo immaginare i quattro ragazzi di Liverpool che i loro versi sarebbero finiti in fatti di cronaca talmente cruenti, che segnarono profondamente la storia del movimento giovanile. Ma quello che i quattro realizzarono in quel 1968, nei quasi cinque mesi di registrazione che partorirono l’Album Bianco, scrisse per quanto in parte inconsapevolmente l’inizio della fine di un’epoca che i Beatles più di chiunque altro avevano incarnato, la favola di ottimismo e speranza degli anni Sessanta. E dire che tra le trenta tracce dell’immortale album, amore e positività non mancano, soprattutto – come sempre – nel materiale di McCartney. Dalla ballata romantica I will alla bucolica Mother Nature’s son, dalla spensierata Ob-la-di Ob-la-da alla soave Martha my dear, ispirata al cane di Paul, un bobtail. E tra questo tripudio di canzoni così slegate l’una dall’altra, ce n’è persino una che è una preghiera a tutti gli effetti. La citata, a principio di articolo, Long, long, long, scritta da Harrison parlando con Dio, una ballata di straordinaria delicatezza e intensità, in cui la voce del chitarrista folgorato dalle religioni orientali, dialoga in uno scambio virile e pieno di pathos con la batteria del grande amico Ringo. It took a long long long time, canta Harrison. C’è voluto tanto tempo. Cinquant’anni esatti, tra pochi giorni. Il tempo sufficiente per mettere a fuoco la portata storica di un disco senza nome. E senza tempo.