I rapper si sono trasformati in poeti e cantautori? È la nuova vita dei bad boy
L’hip hop s’è ingentilito, ma non imborghesito, tranquilli!
Roma. S’è ingentilito il rap. Imborghesito, direbbe Beppe Grillo, approssimando per grossolanità. Quando gli hanno domandato se si sentisse più rapper o più cantautore, Anastasio, uno dei concorrenti più amati dell’edizione in corso di “X-Factor”, ha risposto: “Entrambe le cose” (e aveva la faccia un po’ smarrita, perché era una domanda un po’ da anziani). Il rap assorbe il cantautorato perché assorbe tutto, esattamente come faceva il pop, avendo scavalcato il pop.
“Stare 15 o 20 posizioni sotto i rapper non è un problema”, ha detto al Messaggero Emma Marrone, a proposito del suo ultimo disco: ha accettato di buon grado che il suo successo non sia più stratosferico, ha preso sportivamente Salmo (rapper) quando ha detto che i cantanti pop sono “scoreggioni” (“borghesucci”, in grillese) sia perché ha una certa età e la corsa per la vetta l’ha già fatta e non le interessa più (ora le preme solo fare quello che la rende felice e che la lascia coerente), sia perché “la musica sta cambiando, il pop non gode più di grandi posizioni”. Che spleen, ragazzi. E’ tutto finito? Il pop è diventato mortale? Lo vedremo invecchiare com’è invecchiato il rock (e cioè male, malissimo)?
Piano, cautela. La copertina dell’ultimo disco di Baby K, “Icona” (uscito il 16 novembre) sembra un tributo a Katy Perry: il corpetto fucsia, il chewing gum, la ragazza seducente ma cazzuta, la riot girl fashion, i colori glitterati, il Barbie world. Niente che il pop e le sue reginette non abbiano già detto, cantato, espresso decine di volte: il rap scopiazza il pop? Non esattamente: gli si riallaccia. In questo passaggio, naturalmente, qualcosa perde: il graffio. E da che era urlo e sfogo, fastidio e irruzione, il rap diventa scorta, messaggio, certe volte anche poesia.
Dall’altra parte dell’oceano, invece, il rapporto tra rap e pop non è (più o almeno non solo) derivazione o competizione o passaggio di testimone, ma convivenza (e magari una grossa mano, almeno nell’immaginario, l’ha data il matrimonio di Beyoncé, icona pop, e Jay Z, icona rap). Una convivenza felice abbastanza da consentire, da molto tempo ormai, una sperimentazione sempre più sofisticata, una mescolanza di generi efficace come certe sperimentazioni che, nella storia della musica recente, sono riuscite solo al pop. I rapper cantano l’R&B, ha scritto di recente il New York Times, e ha proposto i nomi dei protagonisti di questa nuova tendenza: ci sono cinque donne (tra cui Queen Naija ed Ella Mai) e due uomini (Jacquees e Pink Sweats). Dopo trent’anni di collaborazione tra rap (hip hop, meglio) e R&B, con l’uno che si avvaleva dell’altro per coprire le proprie lacune (melodiche, nel cantato, nella valenza politica), i nuovi cantanti R&B sono cantanti rapper: sia perché sono consapevoli che per avere successo devono “allinearsi con l’hip hop”, sia perché l’influenza di rap e hip hop è diventata un fatto di spirito del tempo e si riflette in tutto.
È un riflesso indebolito, troppo pop, troppo largo, troppo poco specifico? Negli anni Novanta, il rap s’ibridava col metal, c’erano i Rage Against the Machine, ed erano parecchio incazzati. Oggi il rap canta, s’ibrida con il soul e fa il soul, s’ibrida con l’R&B e fa l’R&B. Ha scritto il New York Times che il canto è diventato una parte dell’hip hop grazie a Drake, verso la fine degli anni 2000 (prima c’era stata Lauryn Hill), che ha capito come rendere il rap e il canto una variazione l’uno dell’altro, abolendo la dialettica oppositiva e alternativa tra le due forme (lezione appresa perfettamente da Post Malone, Swae Lee, Young Thoug). Il sincretismo è armonia: il pop non è finito ma, in questo, ha meno talento del rap. Se volete un disco che ve lo dimostri al primo ascolto, prendete a occhi chiusi “Oxnard” di Anderson .Paak.