La fuga dei Bocelli
Qui solo sesto, in America “Sì” di Andrea Bocelli vola in testa alla hit parade: non accadeva dai tempi di “Volare”. Storie e paradossi della canzone italiana all’estero
Sì: Andrea Bocelli contro un paradosso. “Sì” è il titolo dell’album con cui il cantante pisano a cavallo tra classica e pop, dopo essere già stato il solista di maggior successo in tutta la storia della musica classica, in questo novembre è arrivato al primo posto nella classifica degli album più venduti negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Erano sessant’anni che una canzone italiana non era prima nelle hit parade Usa: “Volare” di Domenico Modugno, che vendette in tutto il mondo 22 milioni di dischi, e le cui cinque settimane al numero uno erano state, appunto, un unicum. Mai successo prima; mai più successo dopo, fino appunto a Bocelli. Ma è poi la prima volta in assoluto che la “doppietta” anglo-americana riesce a un cantante italiano. Nel dettaglio, è primo posto in Stati Uniti, Inghilterra e Scozia; terzo in Canada, Irlanda e Corea del Sud; quarto nel Belgio fiammingo (curiosamente nel Belgio vallone è invece solo 53esimo); solo sesto in Italia. Nemo propheta in patria… E poi settimo in Australia e Paesi Bassi, e dodicesimo in Germania.
E’ vero: quelli di “Volare” erano i tempi del 45 giri, facciata principale e lato B. Due canzoni sole. “Sì” è invece un album con 12 pezzi, che diventano 16 nell’edizione deluxe, e 18 con le tracce bonus dell’edizione di Target. E c’è pure un’edizione spagnola con 13 tracce: anch’essa sale a 18 nell’edizione deluxe. Bocelli canta quindi non solo in italiano ma anche in inglese, in spagnolo e perfino in latino: una “Ave Maria Pietas” in duetto con il soprano russo di etnia tatara Aida Garifullina. Ma comunque è l’italiano la lingua predominante nell’edizione che ha sfondato nel mercato anglosassone.
E’ anche la prima volta in assoluto che la “doppietta” anglo-americana riesce a un cantante italiano
E immaginiamo a questo punto l’obiezione: ma come? Non si dice in continuazione dei cantanti italiani che spopolano all’estero? In realtà, sul successo della musica leggera italiana all’estero esiste una sorta di geopolitica, di cui si occupò nel 2012 per il Mulino un libro scritto da uno studioso al tempo stesso leggero nel tono rigoroso nei contenuti: Stefano Telve, docente di Linguistica italiana all’Università della Tuscia. “That’s amore! La lingua italiana nella musica leggera straniera” era il titolo. Sei anni sono passati, ma la divisione che fa Telve del globo in quattro aree è ancora sostanzialmente valida, anche dopo la novità del successo di “Sì”.
Area numero uno, dunque. E’ quella romanza e anglofona dell’Europa occidentale: Spagna, Francia, Regno Unito, Irlanda, ma estendibile all’Australia. Qui domina l’italiano del canto lirico d’ascendenza melodrammatica, appunto alla Pavarotti e Bocelli e al più recente “Il Volo”: terzi infatti all’Eurofestival del 2015, ma primi al televoto. Dopo Modugno e i primi anni Sessanta, è invece minimo l’interesse per il pop melodico italiano. “L’italiano tuttavia emerge quasi sempre solo in brevi momenti, in singole espressioni caratterizzanti, e non riesce a imporsi davvero nei testi delle canzoni”. Fa eccezione la Francia, dove l’impronta lirica passa non solo nelle nuove voci tenorili, ma anche in quelle di tipo pop e soul-blues: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Zucchero, Nek, Tiziano Ferro.
Il secondo gruppo è quello dell’Europa centrale: Germania, Svizzera, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca. Anche qui sfondano la Pausini, Ramazzotti e Bocelli, ma c’è in più una forte presenza del repertorio melodico italiano della generazione precedente: da Adriano Celentano ad Al Bano e Ivan Graziani. E qui c’entra molto un folto pubblico di emigranti, che permettono anche il successo di alcuni cantanti in italiano pressoché sconosciuti in Italia: da Francesco Napoli a Marco Borsato o a Mauro Scocco. Appartiene a questo filone anche l’imbarazzante record che tra 2000 e 2005 ebbero in Germania i tre album “La musica della mafia”, che poi in realtà riguardavano la ‘ndrangheta. Ben 150.000 copie vendute!
Gruppo numero tre, l’Europa orientale e meridionale. Qua la data di riferimento è il 1983, quando l’Unione sovietica di Andropov decide di trasmettere il Festival di Sanremo. Non in diretta, ma alcune settimane dopo, in modo da evitare sorprese. L’effetto è comunque dirompente, anche perché da sempre la musica occidentale sui media sovietici era bandita. In molti ritengono che Andropov da ex capo del Kgb in realtà aveva di prima mano le informazioni sul punto di decomposizione cui il
Il linguista Stefano Telve
ha individuato quattro aree
nel mondo, ciascuna con una propria tipologia di musica italiana
da esportazione
Gli italiani che vincono festival
in America latina e da noi sono perfetti sconosciuti. La lingua
della musica e la colonizzazione
del Dopoguerra
Ma il paradosso che Bocelli ha sconfitto è appunto questo: l’italiano ha difficoltà a essere esportato come lingua della canzone pop di oggi, ma al contempo è lingua della musica tout court. Condoleezza Rice, che è stata segretario di stato nella seconda Amministrazione Bush, si chiama in quel modo strano perché la madre, pianista appassionata, voleva chiamarla “Con Dolcezza” secondo l’indicazione musicale. Ma l’ufficiale di stato civile non era versato né di musica e né di italiano, e così mise una “c” al posto della “e”. I musicisti di tutto il mondo leggono appunto in italiano le indicazioni di tempo – largo, grave, larghetto, andante, moderato – oltre che “con dolcezza”. E i nomi delle note, piano, opera, soprano, mezzosoprano, contralto, viola, anche il “piccolo”: nome inglese di quello che in Italia è l’ottavino. Mentre sono di chiara derivazione italiana pure in inglese violin, mandolin, clarinet, e anche cello (da violoncello).
Il Festival di Sanremo trasmesso
nel 1983 nell’Urss di Andropov:
il successo di Toto Cutugno e, l’anno dopo, il fenomeno Al Bano
Dopo aver per secoli invaso il mondo con i suoi compositori, le sue opere e le sue romanze, l’Italia è per lo meno dalla fine della Seconda guerra mondiale, se non da prima, fortemente colonizzata dalle mode musicali provenienti dal mondo anglosassone. Tant’è che perfino quando per ritrovare un po’ di radici cerchiamo di buttarci sulla musica più autoctona, anche quella finiamo per definirla come folk o world music. Eppure, malgrado questa apparenza, secondo Telve in realtà il seminato in tanti secoli di eccellenza musicale italiana continua ancora a dare raccolto, e “fuori d’Italia, la fama secolare dell’italiano ‘lingua del canto’ per eccellenza resta ancora viva e vitale”. “Accanto all’italiano da esportazione di Caruso, Modugno, Pausini, Bocelli si registra infatti anche una diffusione della nostra lingua in bocca straniera che nasce e prospera nella produzione estera trasversalmente a epoche e generi musicali”.
Emblematico è l’anglo-italiano di Dino Crocetti in arte Dean Martin nella canzone scelta appunto come titolo del libro: “When the moon hits you eye like a big pizza pie/ That’s amore/ When the world seems to shine like you’ve had too much wine/ That’s amore/ Bells will ring ting-a-ling-a-ling, ting-a-ling-a-ling/ And you’ll sing ‘Vita bella’/ Hearts will play tippy-tippy-tay, tippy-tippy-tay/ Like a gay tarantella”. All’epoca in cui l’aggettivo “gay” veniva ancora usato nel suo senso originario di “felice”… Sullo stesso spirito ma testimoniante un’Italia che già si sta americanizzando è “Mambo italiano”, anch’essa dei primi anni Cinquanta: “Hey mambo, mambo italiano/ hey hey mambo mambo italiano/ Go go go you mixed up siciliano/ All you calabrese do the mambo like-a crazy with the/ Hey mabo don’t wanna tarantella/ Hey mambo no more mozzarella/ Hey mambo mambo italiano try an enchilada with a fish baccala”. Ma qualcosa del genere rimbalza perfino nella epocale “Bohemian Rhapsody” dei Queen: “Scaramouch, scaramouch will you do the fandango/ Thunderbolt and lightning - very very frightening me/ Gallileo, Gallileo,/ Gallileo, Gallileo,/ Gallileo Figaro – magnifico”. Lo stesso Elvis Presley, colui da cui gran parte della colonizzazione coloniale anglosassone viene fatta risalire, in realtà il suo più grande successo, con 20 milioni di copie vendute, lo fece con “It’s now or never”: cover in inglese di quell’“O sole mio” che per il pubblico americano era rimasta un’icona di italianità e di bel canto fin da quando l’aveva incisa il grande Caruso.
Ma poi troviamo “Makaveli” citato nell’hip hop. Il futurismo di Marinetti che ispira il post-punk dei Tuxedomoon. I tedeschi Haggard che mescolano la loro lingua a latino, inglese, francese, russo e italiano nel loro album dedicato a Galileo Galilei. I norvegesi Ancient, che cantano i primi nove versi della “Divina Commedia”. E così via. Dal libro di Telve merita forse di essere ancora ricordata la segnalazione che già Bocelli con le 12 milioni di copie vendute di “Con te partirò” aveva stabilito il record della canzone italiana più venduta di tutti i tempi, e dell’undicesima in assoluto: anche se al numero cinque della hit parade mondiale c’era in effetti un’altra canzone italiana, ma cantata in inglese. La già citata “It’s now or never”, cioè “O sole mio”. Insomma, lo spazio per esportare il canto in italiano c’è. Come dimostra Bocelli, tutto sta nel rendersene conto.