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In una foto sfocata c'è tutta l'essenza assoluta del rock'n'roll di Bob Dylan

Stefano Pistolini

Il mito raccontato in un libro fotografico di Jerry Schatzberg

Il segreto sta in quel twist, prima ancora esistenziale che artistico, che Bob Dylan produce una volta approdato al culmine di una fama subito solidissima, corredata da un mandato definitivo come quello di essere niente meno che la “voce di una generazione”, E’ il modo in cui lui manipola questo status a dar luogo alla sublime suggestione: Dylan scivola via con estrema, beffarda facilità dagli abiti della ortodossia musicale indossando i quali aveva guadagnato spazio, iniziale credibilità e l’attenzione dell’ambiente. E inventa una figura nuova, che ne contiene diverse contrastanti tra loro, rimescolandole, infarcendole, contaminandole, fino a trovare l’esatto design dell’artista rock’n’roll nella dimensione più evoluta mai vista.

 

Siamo nel periodo più classico, 1965-67, allorché il rock è allo stato fluido, vera rivoluzione che contempla il continuo cambiamento come unica condizione irrinunciabile. Dylan mantiene il contatto con la tradizione della musica americana, ma ne inverte il senso, ovvero ne fa una questione privata, rinunciando alla vocazione di megafono della protesta con cui si era fatto conoscere. Dà strada alla verve che da subito, è probabile, gli interessa di più: padroneggiare una voce poetica autonoma, non relegata solo nella forza della parola, ma incastonata (ecco il gesto artistico) in un sistema di rappresentazione complesso, che include i comportamenti, il look e, ovviamente, la metamorfosi del suono, che passa dall’essere derivativo al proporsi come risultato di una sperimentazione di gruppo. La prodigiosa esecuzione di questo piano, la meticolosa cura dei particolari di cui Dylan è capace, mantenendo ostinatamente il controllo artistico di ciò che faceva – perché nessuno come lui sa dove s’indirizzi la sua visione – creano il capolavoro momentaneo, che strega il mondo e in particolare i suoi coetanei, predisposti a intercettare il senso catartico della rappresentazione: “Bringing It All Back Home”, “Highway 61 Revisited” e “Blonde On Blonde” sono il frutto di questa limpida ispirazione, ma non è su loro che ci soffermiamo, quanto sul vertiginoso individualismo incarnato da un Dylan che percepisce d’aver isolato la formula del rock’n’roll nell’essenza assoluta del momento, dopo i caotici inizi degli anni Cinquanta e in presenza di una forma espressiva ormai dominante. In quel momento Dylan “è”, prima ancora di suonare e cantare. E per capire e storicizzare ciò che accadde in quel momento è allora utile un libro, per lo più fotografico, che raccoglie i servizi realizzati con Bob da Jerry Schatzberg, che in quegli stessi anni era anch’egli un protagonista della scena del Village. Schatzberg è un figlio del Bronx, cresciuto in una famiglia di pellicciai da cui fugge alla ricerca di una vita ben diversamente eccitante.

 

A downtown apre un club, l’Ondine, che ha successo e diventa punto d’incontro della scena hip. Poi fa amicizia con Nico, si fidanza con Faye Dunaway, conosce Sara Lownds, futura consorte di Dylan, mentre trasforma il suo hobby per la fotografia in un mestiere, anche approfittando dell’eccellente agenda di contatti di cui dispone. Jerry non è un virtuoso della fotocamera (non lo sarà neanche della cinepresa, quando si dedicherà con successo al cinema, con film come “Panico a Needle Park” che lancia Al Pacino e “Lo spaventapasseri” che lo collocherà tra le firme del new American cinema). Shatzberg è soprattutto un creativo con intuito, coraggio, sfrontatezza e anche ambizione se, come racconta lui stesso, trova il modo d’imbattersi nel personaggio che in quel momento domina New York con l’altezzosità di un sovrano: “Come soggetto fotografico, Dylan era il migliore”, ricorda oggi il 91enne Jerry. “Bastava puntargli l’obiettivo e le cose accadevano”.

 

 

Ed ecco una raffica di bianco/nero a spiegare le sue parole. Ecco Bob con quei capelli mai visti prima, le giacchette avvitate, la sigaretta perennemente accesa e quella faccia, quell’espressione spazientita ed elettrizzata, strafottente, mortalmente sexy, potentissima. “Il giornalista Al Aronowitz m’aveva messo in contatto con lui. Eravamo amici, uscivamo insieme”, racconta Shatzberg, rievocando quel momento speciale. Presto arriva la celebre copertina di “Blonde on Blonde”. “Con Bob ho scattato delle foto in studio, ma non funzionavano. Così gli ho chiesto di scendere in strada. Lui indossava una giacchetta scamosciata leggera e anche io ero vestito troppo leggero. Era febbraio, si gelava, non riuscivo a tenere la macchina fotografica ferma e così le immagini sono venute sfocate. Ma lui, alla fine, ha scelto proprio una di queste”. Dylan è lungimirante, in quel momento in cui tutti lo imitano e lo invidiano: padroneggia la situazione e lo stato di grazia dell’amico. Nel giro di poco quello scatto nel Meatpacking District diventa famoso e i critici teorizzano che la foto sia volutamente fuori fuoco per evocare un’atmosfera drogata, quando la banalità viene scavalcata dalle allucinazioni. Niente di tutto questo, rassicura oggi Shatzberg: solo un caso e la voglia di provocare di Dylan. Poi però arriva l’incidente di motocicletta del cantante. Bob diventa irraggiungibile: “Era sempre più guardingo”. O forse il momento magico era superato, le cose si stavano complicando, gli obiettivi si modificavano. “Oggi non riesco a capire perché Bob provi disperatamente a sembrare un vecchio cowboy”. Forse è un modo per sdrammatizzare, per andare oltre e così sopravvivere. Tutti sanno che certe cose non tornano, che alcuni sono stati fortunati a viverle e che, per i posteri, sia importante ci sia stato uno stravagante fotografo a immortalarle. “Dylan/Schatzberg”, è un libro di 262 pagine a grande formato e colori. Costa 55 euro, edito da Skira.

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