Il “Doppio bianco” è il più sublime dei Beatles: è la fine di un'epoca in musica
Torna in edizione deluxe il “White Album” e ci aiuta favolosamente a comprendere meglio l’opera e la temperie in cui viene concepita. Tracce remixate e materiali inediti che rendono speciale il box set
Chissà perché quell’etichetta “Cinquantesimo anniversario” appiccicata sulla riedizione di “Sgt. Pepper” non ci aveva destabilizzato, mentre vederla applicata sulla candida copertina del cosiddetto “White Album” dei Beatles ci ha colpito come una mattonata proveniente da “Ritorno al Futuro”. È trascorso mezzo secolo dal “doppio bianco”? Roba da matti e comunque un’informazione che per quella parte d’Italia che ne fece il disco di riferimento della sua crescita nonché l’oggetto di deliziosi dibattiti, ribadisce la natura di quelli che ormai sono, ufficialmente, reperti storici.
Ciò detto, questo va considerato il prodotto sublime e conclusivo degli anni Sessanta, contenente in sé già quel fattore di cambiamento che in fondo è il responsabile del mezzo collasso sopravvenuto realizzando la sua vetusta età: perché se “Sgt. Pepper” è il capolavoro dell’età barocca del rock, il Bianco è l’album nato dal germe della rivoluzione. I Beatles d’un tratto diventano definitivamente adulti. In pochi mesi hanno traversato esperienze determinanti: la morte per suicidio del pigmalione Brian Epstein, la turbolenta nascita della Apple, ovvero della definitiva industrializzazione della loro musica e perfino della loro anima e infine quell’esperienza bruciante, entusiasmante e poi terribilmente deludente del viaggio in India, uno sfregamento un po’ isterico, provinciale e impaziente con una spiritualità che non erano pronti a ricevere, ma che invece aveva gran voglia di approfittarsi di loro. L’usura provocata da questi avvenimenti e quell’inevitabile – e in fondo ancora immaturo – cominciare a respingersi a vicenda, anelando a chissà quale indipendenza dalla gabbia della band, è l’ambiente psicologico nel quale prendono il via queste registrazioni, con l’ansia di ricominciare “dopo Sgt. Pepper”, ovvero il capolavoro conclamato, con poca voglia di rimettere al collettivo le esperienze individuali, con i rancori serpeggianti, i nervosismi, ma anche con il desiderio condiviso di andare oltre George Martin, oltre il suo classicismo e il suo perfezionismo da studio di registrazione.
E’ così che nasce il “doppio bianco”, che ha la fortuna di godere dei contributi compositivi ed esecutivi dei quattro Beatles al culmine dell’ispirazione, nel momento magico della loro consapevolezza artistica. E oggi questa edizione Super Deluxe dell’album ci aiuta favolosamente a comprendere meglio l’opera e la temperie in cui viene concepita. Nel cofanetto trovano posto infatti magnifici materiali editoriali, che delizieranno l’ascolto delle tracce dell’album originale, remixate da Giles Martin, il più giovane dei figli di George, con uno splendore acustico che si accoppia al religioso rispettoso delle intenzioni originali.
Poi si imbocca l’ascolto dei materiali inediti che rendono speciale il box set: 50 tracce del “work in progress” dell’album, con versioni alternative, semplici abbozzi, prove estemporanee di ciò che singolarmente i quattro musicisti avevano concepito e riversavano in quell’orcio contenente la magica pozione “Beatles” che avrebbe dato a quelle canzoni la sua inimitabile “specialità”.
C’è di tutto: garage rock, intuizioni metallare, variazioni country, un sacco di esperimenti coi marchingegni che i tecnici di Abbey Road sfornavano per la delizia di John e gli altri. E poi ci sono gli “Esher Tapes”, ovvero le registrazioni che i quattro, riunitisi dopo essere tornati alla spicciolata dall’India, realizzarono nella tenuta di Harrison a Esher, utilizzando solo strumenti acustici e un recorder a 4 tracce. Qui si ha l’onore di condividere l’ultimo momento di comune creatività del quartetto, secondo la regola che s’era dato: un compositore che proponeva e gli altri che intervenivano secondo la propria ispirazione.
Si ascolta una versione di “Glass Onion” fatta ancora da un solo verso, una “Helter Skelter” da 12 minuti, il fiele che Lennon contro il Maharishi in “Sexy Sadie”, la risposta al gruppo che i Beatles temevano di più, i Beach Boys di Brian Wilson, a cui fanno benissimo il verso in “Back in USSR”.
I nastri di Esher sono il tesoro di questa peraltro commovente (e costosissima) riedizione: offrono l’accesso al cuore più intimo e confidenziale di questo sodalizio tra giovani gentiluomini geniali e ormai sul punto di separarsi. Comunque legati da un amore reciproco ineludibile, con quella sventatezza giovanile che a malapena ti fa cogliere la sensazione di vivere qualcosa d’irripetibile. Appena un momento dopo te lo fa scordare, preso come sei a inseguire il succedersi di progetti e opportunità che fanno sembrare la vita un film meraviglioso.