L'anima di Freddie Mercury
Tra schiaffi hard-rock e carezze melodiche le parole cercavano la purezza perduta, forse anche Dio. Al cinema il biopic sulla prima voce dei Queen
Il protagonista della mia storia è Frederick Farookh Bulsara, Freddie Mercury, come scelse di chiamarsi per cercare di togliersi di dosso quell’epiteto razzista, Paki, che gli era assai indigesto. Il 24 ottobre è uscito nel Regno Unito il film biografico sulla prima voce dei Queen, e da qualche settimana è in programmazione anche nelle nostre sale cinematografiche. Piace a spettatori di generazioni differenti, soprattutto ai giovani che i Queen non hanno conosciuto. Ascoltatore di vecchia data dei Queen, ero preoccupato che il film scadesse nella scontata manfrina del ragazzo trasgressivo, eccentrico, di facili costumi e anche un po’ disturbato che amava attirare l’attenzione coi suoi eccessi. Per non parlare della possibile strumentalizzazione, altrettanto scontata, del paladino di battaglie socioculturali che francamente cominciano a essere un po’ sfiancanti. Invece niente di tutto questo. Il regista ha fatto un buon lavoro. E’ riuscito a mostrare il profondo dramma di un ragazzo dotato di una voce e un temperamento straordinari, e di una fragilità altrettanto straordinaria, nella ricerca del proprio volto umano. Il film suscita compassione, la stessa compassione che provai alla sua scomparsa. Ed è da qui che inizia la mia storia, il mio viaggio (fantastico?) fra i testi delle sue canzoni.
C’era una volta un cantante, figlio di genitori parsi, zoroastriani, che aveva un rapporto complicato ma rispettoso col padre, un cassiere che lavorava per il governo inglese nelle colonie britanniche. Eccentrico, fastidiosamente ostentato, dichiaratamente bisessuale, quel cantante ha un grande amore nella sua vita: Mary Austin, la donna a cui lascia metà della sua eredità. Di lei in un’intervista del 1985 dice: “Tutti i miei amanti mi chiedono perché non possono sostituire Mary, ma questo è semplicemente impossibile”. In lei Freddie vede il segno di una promessa che non si compirà mai nella vita. La sua deviazione narcisistica, insieme al crescente uso di stupefacenti, incomincia come scotto da pagare alla fama di un mondo dal quale non riesce a farsi accettare e di cui è disperatamente assetato. Non riuscirà più a sganciarsene. Eppure proprio questa figura femminile, rappresentata bene anche nel film, segna una svolta nella concezione che il cantante avrà di sé: c’è una promessa incompiuta per cui si sente fatto, davanti alla quale non potrà trovare riposo. Sarà una vita dura la sua, ma non può smettere di desiderarne la pienezza. Spesso si è detto che i Queen avessero due anime: Bianca (l’allegro e positivo Brian May) e Nera (il cupo e riflessivo Freddie Mercury), come le facce del loro album-raccolta Queen II. La verità è che lo stesso Freddie conteneva in sé entrambe le facce.
Fastidiosamente ostentato, bisessuale, ha un grande amore nella sua vita: Mary Austin, la donna a cui lascia metà della sua eredità
L’accostamento parrà irriverente, ma il giudizio che Anton Schindler, primo biografo di Beethoven, scrisse alla morte del grande compositore tedesco vale anche per Mercury: “Sono le lame più affilate quelle più soggette a piegarsi, smussarsi e rompersi”. Freddie è fragile, affettivamente confuso, incapace di sostenere la pressione dell’ambiente in cui viene a trovarsi. Fragilità che, come spesso accade, esprime in arroganza. Ma questo non fa che infiammare la ferita che produce uno dei più grandi geni della musica moderna. I testi e la musica delle canzoni dei Queen sono lame che penetrano, mai banali, mai scontati. Freddie Mercury si rifiuta di stare allo schema della canzonetta pop, un tema ricorrente, cantabile e ripetitivo, stile jingle. Le musiche delle canzoni dei Queen sono un susseguirsi di novità, di imprevedibili accelerazioni, schiaffi hard-rock e carezze melodiose, il tutto spesso in un unico brano, seguendo l’emozione, la desolazione o la supplica del protagonista della storia, come nell’insuperata Bohemian Rhapsody.
Una canzone del secondo album, Queen II (1974), Father to son, esprime almeno una parte del sentimento che Mercury aveva di sé e della realtà. Sentimento che lo accompagna fino alla fine nella ricerca della Bellezza, o dell’Amore. La vita è dura se non ci si rassegna a smettere di amare. Anche quando ci si sente delusi e abbandonati. Ma solo questo è vivere veramente: “La vita è difficile, da solo / Ora aspetto che cada qualcosa dal cielo / Aspetto l’Amore” (It’s a hard life, The works, 1984).
“Bohemian Rhapsody”, troppo lunga per diventare un hit secondo i critici. La più bella canzone di tutti i tempi per i sondaggi inglesi
We will rock you (The news of the world, 1977), racconta con durezza il disagio dei giovani che devono emergere o morire, in un mondo che ha perso la necessità di un significato del vivere. Puro prodotto dell’ambiente, che schiaccia quella voce che esce da dentro e gli ricorda che il suo destino è un altro: pace, soddisfazione. Questo tema ricorre in continuo contraltare con un altro, il bisogno di perdono.
All’inizio i Queen non hanno successo, passano anni nell’indifferenza della critica e del pubblico. Poi Queen II sfonda con Seven Seas of Rhye, che esprime la spavalda ambizione di quattro ragazzi che reclamano una rivalsa davanti all’incomprensione del mondo. Narcisisticamente, sognano di dominarlo. E’ un refrain della prima fase della loro produzione. Stesso concetto in We are the champions (The news of the world), ma comincia ad affacciarsi un impulso nuovo: il mondo non capisce, c’è qualcosa che non gira bene in noi ma nessuno ci capisce. Ne usciremo comunque perché siamo i più forti. Questa traiettoria raggiunge il suo culmine in The miracle (1989), con I want it all: “Qui c’è il futuro per i sogni di una gioventù / Voglio tutto, voglio tutto, voglio tutto e lo voglio ora”.
A un certo punto, come un meteorite, scatta una scintilla diversa. In realtà, è presente fin dall’inizio, infatti le due anime (bianco e nero) continueranno a convivere a lungo, ma la forza persuasiva di questo fattore nuovo tende a prevalere a poco a poco. Bo Rap (A night at the opera, 1975) esprime il grido dell’uomo che davanti all’evidenza del proprio niente scopre tutta la sua incapacità di salvarsi da sé. Se chi ci ha dato la vita (qui rappresentato dalla madre) non ci può salvare, chi mai ci salverà? Siamo condannati a essere storditi dal non senso isterico di un’esistenza senza perdono e quindi senza scopo. Perché davanti all’inevitabile esperienza del proprio limite e della propria meschinità, solo il perdono può riattivare la speranza di una positività per l’esistenza. E allora il cuore non può smettere di gridare: lasciatemi andare al mio destino di bene, in un’estenuante lotta senza fiato contro i demoni del nulla che vorrebbero trascinarci in un abisso di nonsenso. Finché, sfinito, si arrende. E non può che essere così, se il destino stesso non prende l’iniziativa su di noi. Pochi artisti moderni sono riusciti a reggere fino alla fine, senza ridurla, la tragicità di questo grido disperato.
Bohemian Rhapsody viene pubblicata nel 1975, quando ancora non si conosce il terribile male della fine del Ventesimo secolo. John Reid, manager dei Queen di quegli anni, resta di sasso quando il gruppo gli presenta il brano che intende utilizzare come nuovo singolo, quasi sei minuti di musica simil-operistica. Reid spiega che non è possibile pubblicare a 45 giri una canzone tanto lunga, ma i quattro sono inamovibili, specialmente Mercury, e rifiutano la proposta di tagliarla. Taylor è amico di un dj e, a titolo personale, gli passa una copia promozionale del vinile chiedendogli espressamente di non trasmetterlo per radio. Everett, ovviamente, cede alla tentazione di proporlo ai suoi ascoltatori, che fanno letteralmente saltare in aria le sue linee telefoniche. Bohemian Rhapsody esce il 31 ottobre ed è uno scossone per il mondo musicale inglese. La stampa si divide ma in generale è concorde nell’affermare che il pezzo è troppo lungo e non diventerà mai un hit. Non sono di questo avviso le stazioni radio inglesi, che passano continuamente il brano. Successivamente, più volte i sondaggi nel Regno Unito stabiliranno Bo Rap come la più bella canzone di tutti i tempi.
La nostalgia per quella purezza originale sentita ormai perduta e irrecuperabile ritorna più volte, ad esempio verso la fine della sua vita quando Freddie scrive These are the days of our lives (Innuendo, 1991). Tuttavia in lui la rassegnazione al fatto che non possa esistere la risposta al proprio grido non riesce a dominare. Fa di tutto per vivere negando quella promessa (in Save me la chiama bugia), ma proprio quando la circostanza inevitabile della sua misera esistenza sembrerebbe dimostrargli che è tutto un inganno, riaffiora quella speranza legata alla promessa dell’inizio: “A volte ho la sensazione / di essere tornato come ai vecchi tempi, molto tempo fa / Quando eravamo ragazzi, quando eravamo giovani / Tutto sembrava così perfetto, sai? / A volte sembra che dopo, proprio non so, / Il resto della mia vita sia stato solo uno spettacolo / Quelli erano i giorni della nostra vita / Le brutte cose erano così poche… / Quei giorni sono tutti finiti ora, ma una cosa è certa: / Quando ci penso e ti rivedo, ti amo ancora”.
E’ fragile, di una fragilità che esprime in arroganza, incapace di sostenere la pressione dell’ambiente in cui viene a trovarsi
Freddie ha avuto a che fare con la figura di Cristo probabilmente nella sua infanzia, negli anni degli studi a Bombay, in India, alla St. Peter’s Boys School e poi alla St. Mary School, due collegi scolastici britannici. Ne rimane affascinato, lo si desume da alcuni suoi testi (“Dimmi Signore, ti dico Cristo…”, Bicycle race) ma non fa mai un vero incontro con l’esperienza cristiana. Si sente rifiutato come un figlio che ama il padre ma non è riconosciuto e accolto. Legge tutta la sua insufficienza con un senso di desolazione per non sentirsi all’altezza di quella promessa di amore che desidera. In certi momenti fatica ad accettare il proprio aspetto, non sistema gli incisivi sporgenti solo perché è convinto che ne risentirebbe la sua voce, l’unica cosa che ha per servire la Bellezza. Inoltre comincia ad avvertire la stanchezza e l’ombra del tramonto, anche dal punto di vista musicale. Eppure non smette di cercarla per quel segno che non vedrà compiersi mai in vita: il vero Amore in cui riposare. “Ho passato tutta la mia vita a credere in te / Ma non riesco a riceverne conforto, Signore! / Qualcuno, qualcuno / Chi può trovarmi qualcuno da amare?” (Somebody to love, A day at the races, 1976).
Nel 1986 Freddie ha i primi sospetti di aver contratto il virus dell’Hiv. L’anno seguente ne ha la conferma e poco dopo sa di essere affetto da Aids. Le sue ultime canzoni riflettono non solo l’imminenza della fine, ma anche il buio dell’abisso del rifiuto del mondo. Noi fatichiamo a ricordare cosa volesse dire Aids in quegli anni: una condanna a morte annunciata, l’emarginazione e il giudizio del mondo. Ma stupisce come, mentre la lama affonda in profondità e spariscono tutta la strafottenza e la voglia di scherzare (travestito da governante in The show must go on, sul suo volto c’è ben altra espressione rispetto al video di I want to break free di sette anni prima), non viene meno però quell’ultima speranza che la critica non ha mai saputo spiegarsi. Nell’ultimo album dei Queen è palese la differenza tra The show must go on, scritta dal chitarrista Brian May che cerca di immedesimarsi (e probabilmente descrive anche quello che si agita nel proprio cuore di fronte alla condizione dell’amico) e Innuendo, di Mercury: “Se esiste un Dio o un qualsiasi tipo di giustizia / sotto questo cielo / Se c’è uno scopo, / se esiste una ragione per vivere o morire / Se c’è una risposta / alle domande che siamo obbligati a porci / Mostratevi, distruggete le nostre paure, / toglietevi la maschera / Oh sì, continueremo a provarci / a camminare su quel filo sottile / Sì, continueremo a sorridere, sì / E quel che sarà sarà / Continueremo a provarci / Fino alla fine dei tempi”. La sua interpretazione di The show must go on è uno schiaffo a quel mondo che l’aveva innalzato e distrutto: giù la maschera signori, cosa siamo al mondo a fare? Anche se May non regge la portata esistenziale della domanda e la risposta è debolissima (“Credo di iniziare a capire: dovrei essere più cordiale”), sin dalle prime immagini del video si capisce che Freddie sta annunciando che tutto quello che ha consegnato di sé come scandalo e trasgressione è solo una maschera. La verità non si vede facilmente, c’è ben altro là sotto!
La ricerca della Bellezza e dell’Amore. Il bisogno del perdono. E poi la scoperta dell’incapacità di salvarsi da sé
Davanti all’apparente fallimento di tutto – non ha trovato quell’eccezionalità che ha inseguito per tutta la vita negli eccessi e nell’assenza di regole – si arrende alla propria incapacità di darsi il bene desiderato in cui si sente intrappolato. Ma questa rassegnazione sfocia in un’ultima supplica, perfino la melodia collabora a consegnare questa estrema implorazione (In my defense, 1986): “Come devo provare? Dobbiamo vivere o morire? Oh aiutami Dio, ti supplico aiutami!”.
Due giorni prima di morire, convoca il suo portavoce e annuncia al pubblico: “Desidero confermare che sono risultato positivo al virus dell’Hiv e di aver contratto l’Aids. Ho ritenuto opportuno tenere riservata questa informazione fino a questo momento al fine di proteggere la privacy di quanti mi circondano. Tuttavia è arrivato il momento che i miei amici e i miei fan in tutto il mondo conoscano la verità e spero che tutti si uniranno a me, ai dottori che mi seguono e a quelli del mondo intero nella lotta contro questa terribile malattia”. Il 24 novembre 1991, a poco più di ventiquattr’ore dal comunicato, Mercury muore, ha quarantacinque anni.
Qualcuno sostiene che negli ultimi mesi della sua vita sia stato attratto dalla fede cristiana e che, forse, si convertì. E’ una questione di cui non avremo mai evidenza, l’unico che potrebbe sciogliere il dubbio non può risponderci. Ma già molte delle tracce del primo album Queen scritte da Freddie Mercury hanno riferimenti alla figura di Gesù, ad esempio al dialogo sulla croce con il ladrone. Al termine di questo viaggio torno all’inizio, con una canzone di quel primo album a Lui dedicata. Non ebbe molta fortuna, sebbene l’esperimento musicale fosse rilevante. Mercury amava accostare rock spietato a testi commoventi o viceversa musiche melodiose a descrizioni tragiche. Era il suo stile. Io non riesco a non pensare che sebbene non abbia mai avuto l’occasione di incontrarLo in vita, Lo vide passare da lontano. Perse il momento, esitò e non Lo seguì, ma quella visione lasciò la cicatrice di un’attesa che non si cancellò mai.
“E poi vidi lui tra la folla / Un mucchio di gente gli si era radunata attorno / Invocato dai poveri, chiamato dai lebbrosi / Il vecchio taceva / Guardandosi attorno / Tutti scendevano per vedere il Signore Gesù / Tutti scendevano / Poi venne un uomo che cadde ai Suoi piedi / “Impuro” disse il lebbroso e facendo tintinnare la sua campanella / Sentì il palmo di una mano toccargli il capo / Va’ ora, va’, ora sei un uomo rinato / Tutti scendevano per vedere il Signore Gesù / Tutto iniziò con i tre magi / Che seguirono una stella che li portò a Betlemme / E fecero sapere a tutta la terra / Che era nato il re degli uomini / Tutti scendevano per vedere il Signore Gesù/ Tutti scendevano”. (Jesus , Queen, 1973)