“Per quanto voi vi crediate assolti”. Perché il '68 di De André è da riascoltare
Vent’anni dopo. Fabrizio e l’antidoto al pensiero approssimativo
Quando è scomparso, a inizio 1999, Fabrizio De André si è come inabissato nella cultura italiana. E torna a galla vent’anni dopo, avvolto da un alone classico, confortato dalla distanza incolmabile tra il suo mondo e il nostro, ma anche ecumenicamente santificato nei valori della sua produzione e nella materia dei dischi, per il repertorio della sua cultura, per il gusto delle sue citazioni, per lo sguardo inconsueto su ciò che gli capitava attorno – eventi nei quali mai si lasciava coinvolgere passionalmente, scansando il raziocinio. Il fatto è che le sue canzoni, ma anche la sua biografia, osservate da questo nostro presente suscitano ammirazione, stupore ma pure sudditanza, per l’inconsueto slancio intellettuale che contengono e per la spontanea congiunzione tra vita, arte e un’estetica vertiginosa.
Genova e l’ormai leggendaria educazione sentimentale di Fabrizio, il circolo degli amici intelligenti, la turbolenta relazione col bisogno della cultura, quindi il brivido del mercato, il farsi “professionista”, l’equilibrismo tra il sentirsi un cantante e il ritenersi un artista, con quella sua presenza intransigente e decadente al tempo stesso, accreditata in tempo reale del titolo di capofila di un genere che all’epoca fu potentissimo: quello dei cantautori, luogo comune di confronto di una generazione esigente, severa e complicata. Questo e molto altro – il fascino del flaneur, la naturalezza del sex appeal, la sua descrizione del poeta alcolico e dissipato, l’esibizione di una morale antitetica a quella dominante, il germe borghese rivestito di lana morbida – ne hanno fatto un monumento vivente e più tardi il venerabile estinto della musica leggera italiana del tempo in cui c’erano “voci importanti”. Dunque, un uomo direttamente da antologia, un fattore fondante della nostra cultura popolare, il caposaldo dell’avvento della trasgressione e della rottura dei codici regolatori del mondo delle canzonette.
De André s’impone d’autorità come il diverso, occupa stabilmente il capotavola nel salotto migliore della nostra canzone e poi si accomiata, circondato da una malinconia per il tempo passato e il diradarsi di certi idiomi che si parlano sempre meno, forse perfino non più. Adesso però, sopravanzando l’amore dei fan perenni, De André ha ripreso a farsi largo in una giungla di consumi culturali a cui, a prima vista, parrebbe del tutto estraneo. Il suo individualismo anarchico, il suo arrovellarsi attorno alla dimensione pubblica e privata della sofferenza, lo sguardo caustico sul paese del buon costume e di tante deprecabili ortodossie, la sua ironia, la sua parola scelta e sovente sanguinante, il dilaniarsi tra la disciplina dell’intellettuale e le tentazioni del viveur, cosa avranno mai a che spartire coi panorami italiani del 2018, con le insorgenze sociali, gli squallori, le insicurezze del presente?
La risposta è lampante: per chi lo ritrova, lo scopre o comincia a frequentarlo aggirandosi nel suo canzoniere, per chi s’avventura sui sentieri dei suoi lavori-concept e lo segue nelle circonvoluzioni dei ragionamenti, per chi s’innamora di questo contenuto di contorta bellezza, De André, a vent’anni dalla sua morte, è l’antidoto allo sbraco del pensiero approssimativo, è un vaccino contro lo spettacolo dei cacciatori di consenso urlanti e degli avvoltoi appollaiati sui piloni del ponte che è venuto giù. Si tratta di passatismo? Piuttosto è la risposta a un bisogno.
Quello di ascoltarlo, per specchiarsi in una sensibilità e in un’attitudine così estranee a un millennio che Fabrizio non ha fatto in tempo a vedere e che l’avrebbe disgustato. Scegliamo un disco della sua produzione: “Storia di un impiegato”, uscito nel 1973, oggi oggetto culturale al confine dell’incomprensibile. È il sesto album di Fabrizio, dopo che il poderoso “Non al denaro non all’amore né al cielo” era stato accolto da un coro di consensi, in fondo prevedibile. Lo registra a Roma, agli studi Ortophonic nella borghesissima piazza Euclide, con la produzione di Roberto Dané, la collaborazione ai testi di Giuseppe Bentivoglio, gli arrangiamenti e il pianoforte di Nicola Piovani, primo interlocutore in una scrittura sofferta e durata oltre un anno.
Storie di un impiegato da bruciare
“Quando è uscito, volevo bruciare il disco” dice Fabrizio in un’intervista rilasciata tempo dopo. “Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi”. Infatti le critiche non sono tenere con lui. L’ala militante parla di “disco tremendo: il tentativo, clamorosamente fallito, di dare un contenuto politico a un impianto musicale, culturale e linguistico tradizionale, privo di qualunque sforzo di rinnovamento e di qualunque ripensamento autocritico”, Riccardo Bertoncelli lo definisce “datato” e “verboso”, Fiorella Gentile, sul popolare Ciao 2001, ne parla come di un “un prodotto scucito, che non ha più il vecchio incanto”. Rispetto a oggi, evidentemente, c’era meno timore referenziale verso quello che era già un maestro, e più libertà di giudizio. Anche Giorgio Gaber attacca De André, criticando il “linguaggio da liceale” che non si capisce “se sia liberale o extraparlamentare”. Fabrizio si offende: “Poteva telefonarmi, anziché raccontare queste cose a un giornale”.
Noi, però, quando andiamo a riascoltare l’album, sospinti dall’aria che tira e dagli anniversari che incombono, ci troviamo a fare i conti con tanta roba. A cominciare dalla capacità, altamente poetica, di mettere in mostra la propria incertezza, il dubbio, il desiderio di partecipare a una rappresentazione che in quel momento sta infiammando gli animi, sebbene lui non abbia vera chiarezza sull’idea a cui aderire, sulla parte da sostenere, sul ruolo da interpretare. “Storia di un impiegato” è un romanzo musicale in 9 quadri, che grazie a una varietà musicale fin ridondante – che anticipa la svolta prog che arriverà nel discutibile sodalizio con la PFM – e attraverso i maniacali particolari delle descrizioni liriche di De André, raggiunge una visualità cinematografica, da tranche de vie in odore di Nouvelle Vague (potrebbe essere Jean-Pierre Léaud quell’impiegato?) o ancora, da acida istantanea alla Bellocchio, ma meno fremente e più disincantata.
È la storia di un impiegato trentenne, uno ben inquadrato nel sistema, che d’improvviso s’accorge di ciò che attorno a lui sta capitando: il Maggio francese, i moti studenteschi, i sussulti di un’epoca appassionata. Allora si sente pervadere da un desiderio rivoluzionario che però non lo solleva dalla confusione, dagli stessi dubbi che sono di De André, legato al filosofare del solitario, preda di un distacco di cui è secondino e prigioniero al tempo stesso. Il verso-chiave che ricorre nel disco è il famoso “Per quanto voi vi crediate assolti / Siete lo stesso coinvolti” che fa la prima apparizione ne “La Canzone del Maggio” e sintetizza il sentire dell’artista: come si è arrivati a questa umiliante sottomissione al potere, da dove stanno cominciando, gli altri, quelli più giovani scesi nelle piazze, ad agire, a prendere parte, a diventare insieme protagonisti di una rivoluzione?
Nella mente dell’impiegato la necessità del gesto di rivolta sovrasta la routine (“Adesso è tardi / Adesso torno al lavoro”) e diventa “La bomba in testa”. “Il ballo mascherato” descrive l’esperienza onirica nella quale questo eroe mancato immagina di far saltare con l’esplosivo i simboli del potere e gli spiriti di Cristo, Maria, Dante e dell’ammiraglio Nelson. Ne “Il bombarolo” il tritolo diventa caotico sinonimo di liberazione, quando nella realtà il goffo tentativo dell’impiegato di trasformarsi in agente del cambiamento si rivela un disastro, e il suo attentato sprofonda nel ridicolo. Le porte del carcere si spalancano per accogliere la sua fallita catarsi: dovrà riflettere sui suoi errori, sulle valutazioni sbagliate, sulla debolezza del suo pensiero.
Come in una via crucis, in “Verranno a chiederti del nostro Amore” l’impiegato subisce perfino l’onta della condanna da parte della donna che ama. Tradito e incompreso, non gli resterebbe che scrivere inutili lettere di perduto amore, senonché proprio nel carcere, dove la sua condizione si scontra con tanta umanità decontestualizzata, arriva l’agnizione: il richiamo che l’aveva risvegliato ascoltando la “Canzone del Maggio” sessantottino alludeva, anziché alle bombe, alla strada dell’appartenenza a una collettività. Dietro le sbarre, allora, comprenderà la discrasia tra individualismo e condivisione. “L’idea del disco era affascinante. Dare del ’68 una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. Ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”, dirà, con inquietudine, De André.
“Di fatto ammirava a distanza, ma sentiva di non appartenere a quella gioventù, di gridare insieme le stesse sillabe in mezzo alle strade affumicate dai gas che spremevano lacrime. Cantava le sue sillabe dai palchi. Lo stimavamo uno dei nostri, libero di non aderire fisicamente alla nostra pubblica ostilità verso i poteri (…) Alla sua biografia manca l’imputazione per convinzioni politiche”, scrive Erri De Luca nella postfazione di “Anche le parole sono nomadi - I vinti e futuri vincitori cantati da Fabrizio De André”, nuovo, interessante volume d’analisi trasversale della produzione dell’artista, curato dalla Fondazione Fabrizio De André Onlus.
Fabrizio si distaccherà velocemente da questo lavoro, non suonandone quasi mai le canzoni dal vivo e approdando presto a nuove e diverse collaborazioni artistiche. Adesso, però, noi figliocci del suo canzoniere ci ritroviamo perplessi a rigirarci questo disco tra le mani, quasi sia il reperto di una civiltà sepolta, mentre attorno risuonano musiche avulse dal gusto di Fabrizio. Proviamo a misurare l’esperienza del suo ascolto in relazione alla disabitudine nel frattempo subentrata, alla sopravvenuta difficoltà di concentrazione. È un’esperienza istruttiva. Coglie il senso di cosa possa essere stata l’importanza della musica in un passato i cui connotati si vanno sbiadendo.
E ribadisce come, per alcuni anni, un musicista padrone di seri contenuti e di un magnifico linguaggio, abbia contribuito all’innovativo genere culturale del cantautorato. Ma conviene arrestare il ragionamento qui, a questa constatazione. Tralasciando le nostalgie. Tutto al più interrogandoci sulle ragioni del declino di questo modo espressivo. Che anni fa proliferò, godendo di spazio, fiducia e credibilità. Quando, per qualche stagione, per trionfare bastò la forza di una voce, il suono di una chitarra e l’idea di trasformare in musica i fantasmi e i sommovimenti della propria lotta interiore.