Il canto dei cigni
Cinquant’anni fa lo storico concerto improvvisato dai Beatles sul tetto della Apple a Londra. Sipario sui Sixties, d’allora in poi un’altra musica
Una mattina qualunque di mezzo secolo fa, Londra si fermò con il naso all’insù. In quel gennaio di cinquant’anni fa il pop e il rock cominciarono a diventare grandi. Si apriva un anno importante, di passaggio, il 1969. Era il canto del cigno di un’èra che aveva cambiato la storia della musica “leggera”. L’alba di una nuova stagione, che ancora, mezzo secolo dopo, vive e si sviluppa. I Sessanta dei Beatles si chiusero in quell’anno intenso e difficile. Che idealmente passò il testimone a una nuova stagione, che sarebbe stata quella dei Settanta, quando l’ottimismo e la freschezza dei Sixties, quella incarnata dai primi Fabs, dai loro caschetti e dal loro yeah yeah, avrebbe lasciato posto ai più dannati e autodistruttivi Seventies. Il ’69 prepara questo terreno. Già dai suoi primi giorni. Il 12 gennaio irrompono sulla scena musicale i Led Zeppelin, che pubblicano il loro primo album omonimo. Diventerà una pietra miliare del rock. Con la band britannica si volta pagina, un nuovo capitolo si apre già dai primi minuti del disco, con Good Times Bad Times e Baby I’m gonna leave you. E’ l’embrione dell’hard rock, lo sviluppo delle strade iniziate dai Rolling Stones, dagli Who, da Helter Skelter.
Il 12 gennaio irrompono sulla scena i Led Zeppelin con il loro primo album. Diventerà una pietra miliare del rock
Nuovi astri cominciano a brillare nel firmamento. Ma al centro della galassia restano, ancora per poco, i quattro di Liverpool. Quando il 1969 si presenta, la loro storia è quasi arrivata al capolinea. I Beatles stanno registrando un album che deve diventare un film. Litigano, sono svogliati e sfilacciati. Il progetto si chiama Get back, diventerà poi Let it be e sarà l’ultimo album della loro storia. Avrà una gestazione lunga, tanto che tra la fine del grosso delle registrazioni e la sua pubblicazione, i Beatles incideranno e pubblicheranno un altro disco, il penultimo per uscita, l’ultimo per realizzazione, il gioiello Abbey Road, quello con la celeberrima e imitatissima copertina sulle strisce pedonali.
In quel gennaio del 1969, mentre a Praga Jan Palach si dà fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia e Richard Nixon si insedia alla Casa Bianca, i Beatles sono alle prese con il loro disco-documentario. Il nervosismo non manca. Il film ne racconta degli sprazzi, come una aspra discussione tra Paul McCartney e un avvilito George Harrison catturata dalle telecamere. Ma nella band affiora ancora, malgrado le liti e le divergenze (in quel periodo si litigava tra l’altro su questioni di manager e soldi), la complicità di quattro ragazzi diventati giovani uomini insieme. John e Paul se la ridono duettando sulle note di Two of us, cantandola con un forte accento scozzese. George e Ringo mostrano attimi di splendido cameratismo e di intesa. Insomma, anche se lo spettro della fine aleggia sul gruppo, la voglia di far musica e divertirsi ogni tanto prevale. Ed è così che arriva quel 30 gennaio del 1969. Un giorno che resterà nella storia della musica per tanti anni a venire. Il giorno del rooftop concert, il folle concerto sul tetto della Apple a Londra.
Prima di salire su quel tetto, è bene ricordare da cosa venivano i Beatles. Da un 1968 che era stato l’anno della
Quando il 1969 si presenta, i Beatles stanno registrando un album che deve diventare un film. Litigano, sono svogliati e sfilacciati
meditazione in India e della pubblicazione dell’Album Bianco, un viaggio multiforme ed estremo tra generi musicali e sperimentazioni. La musica è cambiata. I Beatles l’hanno cambiata. E con loro gli altri protagonisti di una stagione leggendaria. Gli Who, ad esempio, in quei giorni del 1969 lavorano al più ambizioso dei loro progetti, il concept album Tommy, altro caposaldo della storia della musica. “So che non mi crederà nessuno, ma io sto davvero pensando di scrivere un’opera rock che abbia per protagonista un giocatore di flipper sordo, muto e cieco. Non sto scherzando, anche se per ora è solo un’idea che ho in testa. Non c’è niente di definito”. Così aveva parlato alla rivista Rolling Stone a fine 1968 Pete Townshend, leader della band. Lo fece davvero e il risultato fu un capolavoro.
Tommy, dunque, ma non solo. Il cammino verso nuove forme e nuove sfide sta attraversando la musica “leggera” tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Il 10 ottobre del 1969 uscirà il primo album della band progressive inglese King Crimson: In the Court of the Crimson King. E’ la prima incisione progressive rock, quel genere che spadroneggerà per un bel pezzo di anni Settanta e che porterà anche delle band italiane, su tutti la Pfm, sul tetto del mondo. In America quell’anno l’irriverente genio di Frank Zappa darà alle stampe ben tre album, contribuendo ad accompagnare la musica nel nuovo scenario dei ‘70, molto, molto lontano dal brio vitale dei primi ‘60 e della Beatlemania.
Il 1969 sarà l’anno della Luna ma sarà anche un anno di orrori e violenze. Sarà il preludio dei tormentati anni Settanta, il tramonto definitivo di quella difficile e controversa stagione di speranza, utopia e cambiamento che furono i Sessanta. Il ’69 sarà l’anno in cui gli Stati Uniti sapranno del massacro di My Lai, la strage di centinaia di civili inermi in Vietnam per mano di soldati americani. Sarà l’estate dei brutali eccidi compiuti in California da Charles Manson e dalla sua “Famiglia” di hippie, che scriveranno col sangue delle vittime le parole delle canzoni dei Beatles, sarà l’anno in cui a Chicago due membri delle Pantere Nere, il movimento dei giovani afroamericani, verranno uccisi nel sonno dalla polizia. Sarà l’anno che in Italia si concluderà con il battesimo della stagione del terrorismo, il 12 dicembre a Piazza Fontana, a Milano. Nella musica sarà l’annus horribilis dei Rolling Stones: il 3 luglio Brian Jones verrà trovato morto nella sua piscina, a dicembre il concerto organizzato dalla band di Jagger ad Altamont, quello che doveva essere una sorta di bis di Woodstock per la Costa Ovest, finirà nel sangue, con l’uccisione da parte del servizio d’ordine di un ragazzo afroamericano che aveva estratto una pistola tra il pubblico. Sarà uno dei quattro morti dell’evento, che nella retorica della sottocultura verrà ricordato come “la fine delle illusioni”.
L’annus horribilis dei Rolling Stones: il 3 luglio Brian Jones sarà trovato morto in piscina, a dicembre un concerto finirà nel sangue
L’èra del rock and roll, gli anni naif e gioiosi dei primi Beatles sembrano lontanissimi. E forse anche per questa nostalgia nei quattro si fa strada l’idea di esibirsi dal vivo, in un concerto quanto mai originale. Il quartetto non si era più esibito dal vivo dall’estate del 1966, quando si concluse l’ultima tournée americana. I Beatles erano molto stanchi dei concerti, che assorbivano gran parte del loro tempo portandoli in giro per il mondo. Non solo. In quelle esibizioni, circondati da ragazzine urlanti, con impianti di amplificazione non adeguati, in mezzo a un’isterica baraonda, la musica passava in secondo piano e la sgradevole sensazione di essere più animali da circo che artisti era avvertita dai quattro musicisti. A questo si aggiunsero una serie di inconvenienti che accompagnarono gli ultimi tour. Tra questi, i disordini in America a seguito della celebre, improvvida frase di John Lennon (“Oggi siamo più popolari di Gesù Cristo”), in Giappone, e soprattutto nelle Filippine, dove un incidente diplomatico con la first lady Imelda Marcos quasi costò la pelle al quartetto. E così, rientrati dalle ferie del 1966, i Beatles si chiusero in sala d’incisione per realizzare quello che sarebbe diventato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e non tornarono mai più a esibirsi live. La voglia di suonare dal vivo, però, per quel gruppo che si era formato in ore e ore di esibizioni tra Liverpool e Amburgo, sulle note del rock and roll americano, si faceva sentire. E così, durante le riprese del film documentario nacque l’idea di esibirsi in un concerto “diverso”. Si pensò alle location più impensabili, persino il deserto del Sahara, raccontò dopo Ringo Starr. Alla fine si decise di salire sul tetto dell’edificio che ospitava gli uffici della Apple Corps al numero 3 di Savile Row.
E’ la mattina del 30 gennaio di cinquant’anni fa. Fa freddo a Londra. In Italia, intanto, ci si prepara a seguire il Festival di Sanremo, che si apre quella sera. Il clima sessantottino si sente, eccome. Dario Fo e Franca Rame organizzano un Controfestival, ma la sinistra più dura e pura non apprezza. Vincerà Zingara, cantata da Bobby Solo e Iva Zanicchi. E per la prima e unica volta, al casinò si farà vedere l’artista che svecchierà la musica leggera italiana con un’operazione simile a quella realizzata dai Beatles in Inghilterra, Lucio Battisti da Poggio Bustone, che porta in gara Un’avventura. Si piazzerà nono, raccogliendo una manciata di voti in più di Orietta Berti.
Sul tetto John, Paul, George e Ringo non sono soli. Ai quattro si affianca Billy Preston, tastierista afroamericano, l’unico con cui i Beatles hanno condiviso il proprio nome sull’etichetta di un disco. Nella loro ultima esibizione live, nel 1966 a San Francisco, i Favolosi Quattro assomigliavano ancora ai ragazzi dei primi tempi della Beatlemania. Ora, solo due anni e mezzo dopo, anche nel look i Beatles sono cambiati. Lennon porta i famosi occhiali tondi, ha i capelli lunghi fino alle spalle e indossa una pelliccia di Yoko Ono. Paul sfida il freddo, è l’unico senza un soprabito, e sulla sua faccia da ragazzino è spuntato un barbone nero. Già da un pezzo circola la leggenda metropolitana sulla sua morte che lo vorrebbe rimpiazzato da un sosia. Harrison ha i capelli lunghi e i baffi e un giaccone di pelliccia. Ringo, baffuto e capellone, indossa un improbabile impermeabile rosso. Le facce pulite, le cravatte e gli inchini dei primi anni Sessanta, quelli della Beatlemania, non ci sono più. I Beatles e la musica tutta stanno entrando in una nuova stagione, accompagnando i giovani del mondo occidentale in un’era di smarrimento, violenza ed eccesso.
Il concerto sul tetto, nei suoi quaranta minuti di follia, si trasforma così nel ponte ideale tra passato e futuro, dalle radici del quartetto, quelle del rock and roll vitale e genuino, a quello che lo showbiz diventerà. Anticipatori, in questa come in altre tendenze, i ragazzi di Liverpool consacrano l’èra del live come happening. In quel 1969 che sarà l’anno del grande festival di Woodstock, in America, il tripudio della stagione hippie, con artisti del calibro di Joan Baez, the Who, Jimi Hendrix, Joe Cocker (che stravolgerà sul palco a modo suo la beatlesiana With a little help from my friends in una interpretazione memorabile), Santana.
L’esibizione comincia sulle note di Get back. McCartney canta, Lennon si aggiunge nei cori e suona l’assolo di chitarra. I Fabs sono in forma. Bastano pochi minuti perché una folla di curiosi cominci a prendere corpo attorno al palazzo della Apple. C’è chi si arrampica sui tetti per vedere l’evento più da vicino. Nelle strade circostanti, il caos diventa totale. Giovani della Swinging London ed eleganti gentleman con bombetta e ombrello si fermano con il naso all’insù fissando quel tetto. I Beatles suonano di nuovo Get back, poi Don’t let me down, con un Lennon ispirato e il delizioso basso Hofner di McCartney che duetta col piano di Preston. Poi I’ve got a feeling, una performance grintosa che entrerà nel disco, con una grande intesa tra i due vecchi soci Lennon e McCartney, ormai a un passo dal separarsi, che cantano le rispettive parti sovrapponendosi. Seguono One after 909, un ingenuo rock and roll composto da Lennon adolescente, e lo slow rock di Dig a Pony, con John che legge il testo su un cartello.
La leggenda metropolitana della morte di McCartney. In Italia, intanto, con “Un’avventura” Battisti si piazza nono a Sanremo