Come Sanremo. Canzoniere breve e triste del primo Festival del cambiamento
Tra il voler dire e il voler fare: all’Ariston non battevano i cuori ma solo le mani
Dai sogni di Rolls Royce guai a chi ci sveglia. Ci stanno provando in tanti, e altri ancora ne arriveranno, però noi resisteremo. Perché siamo nati sotto il segno dei pesci, meritiamo un’altra vita, violenta e tenera, più giusta e libera. E, almeno a Sanremo, una volta all’anno per cinque sere, vogliamo (vorremmo?) cantare, senza finire querelati dal Moige, che non siamo mai stati noi stessi mai, che non è vita è rock’n’roll, che non è musica è un Mirò, chitarra in perla Billie Joe. Fa così Rolls Royce. Achille Lauro, che l’ha scritta e cantata all’Ariston, viene accusato di aver portato la droga in prima serata, in mondovisione, perché il testo è sembrato, all’attento studio ermeneutico di “Striscia la notizia”, un invito a impasticcarsi, a prendere l’ecstasy. Un subliminale neanche troppo subliminale. Un preliminare, via. Direte: che cosa anni Novanta! Anzi, no, prima direte: ma Striscia non era la voce dell’irriverenza? Che cos’è successo, com’è passata dalla notizia alla mestizia? E chi lo sa. Fatto sta che gli autori si son messi a far la parafrasi del Lauro e ne hanno tratto un’induzione all’uso di sostanze psicotrope. Lui ha risposto: “Non ne so niente”. Quelli hanno ribattuto: “Ma come, nel tuo libro c’è un capitolo che si chiama ‘Confessioni di un pusher’!”. Prima di questo, è stato accusato d’aver plagiato 1979 degli Smashing Pumpkins (e sempre agli anni Novanta andiamo, e riandiamo). Nessuno gli ha ancora domandato se non teme di pentirsi, da grande, quando magari sarà genitore 2 e gli toccherà andare a parlare in una situazione fatta di sguardi come una riunione con gli insegnanti di suo figlio, d’aver la faccia piena di tatuaggi. Però c’è tempo, non disperiamo.
Ora. Lauro andrebbe difeso già solo per il nome e cognome che si è scelto, circondato com’è da coetanei che si chiamano in omaggio a farmaci, derivati di benzina, e una vasta gamma di impronunciabilità non conducibili a niente di sensato o sensuale. Il nome è un colpo tramortente dal quale non ci si riprende mai più, ha scritto Marshall McLuhan. E’ per questo che certuni vanno dall’avvocato per farselo cambiare e certi altri, che non possono permettersi spese legali, diventano artisti così da potersi ribattezzare.
Lauro De Marinis, qualunque fosse il colpo tramortente dal quale voleva tentare di riprendersi, s’è scelto Achille Lauro come nome per firmare le sue canzoni. Compresa Rolls Royce, tra le poche belle di questo Festival un po’ così, tutto in bilico tra il voler dire e il voler fare, un Bolero di Ravel senza culmine, mai, e giusto con qualche discreto crescendo. Ma lasciamo da parte lo spettacolo, il costume, la passerella, la politica, lo yin e lo yang. Fatta eccezione per questa del Pelìde della trap e forse
S’è scelto Achille Lauro come nome per firmare le sue canzoni. Compresa “Rolls Royce”, tra le poche belle di questo festival
quella degli Zen Circus, le canzoni sanremesi 2019 dialogano tra di loro in modo mirabile, in una piatta armonia che a questo punto, essendo proprio all’armonia dedicato il festival, dobbiamo ritenere ricercata, voluta dai selezionatori. Un unico grande pezzo tiepido e corretto, non querelabile dal Moige, non contestabile da Striscia la mestizia, non memorabile, non urlabile, non, non, non. E pensare che solo l’anno scorso di belle canzoni ce ne sono state parecchie, alcune addirittura strepitose, e le bruttissime, a risentirle alla luce di queste qua di adesso, sembrano improvvisamente buone. C’erano delle così belle canzoni, a Sanremo 2018, che Baglioni delle città e delle immensità si era permesso il lusso di usare le sue come basi di sketch, si era fatto interrompere da chiunque mentre le cantava, e a casa ci eravamo innervositi, ma non troppo, perché non avevamo niente da cui venire rinfrancati o rimborsati. Quest’anno, invece, Baglioni i pezzi suoi li ha cantati per bene, quasi sempre da solo, come fosse a un suo concerto, avendo probabilmente contezza di come, a casa, avessimo drammaticamente bisogno di conforto. E’ stato Sanremo solo quando hanno cantato Giorgia, Venditti, Raf, Tozzi, Cocciante, Baglioni: tutti fuori gara, tutti con canzoni di una certa età. Il pubblico ha tenuto il tempo solo quando c’erano loro, applaudito solo quando c’erano loro (ai cantanti in gara sono state battute le mani, che è una cosa bene diversa, è un fatto d’etichetta e non di voglia).
E’ stato Sanremo solo quando hanno cantato Giorgia, Venditti, Tozzi, Cocciante: tutti fuori gara, tutti con canzoni di una certa età
Fuor di Lauro, questo Sanremo è tutto un amore svilito, un’autostima riconquistata, un’identità rimpianta, un’ascesi ricercata. Innamorati ne sono saliti pochi, sul palco: quest’anno scaldano molto di più i soldi e il loro rigetto, la decrescita e il dialetto, il sesso anziano, l’astinenza giovane. Niente ritornelli orrendi ma indimenticabili, o strepitosi e incancellabili. Niente grandi emozioni. Hanno cantato tutti le stesse cose, quelle che si cantano quando si cerca di non cantare sempre le stesse cose, e cioè l’amore, fingendo di ignorare (o volendosi illudere) che non sia solo di quello che gli italiani vogliono sentir cantare (ma pure parlare). Povero amore, rifuggito come se fosse establishment. Vattene amore.
Gli Zen Circus hanno cantato la loro “L’amore è dittatura” con il cantante che ha tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo, rigido tranne che ai piedi, li sbatteva per terra come fossero pugni, come abbiamo fatto tutti, da bambini, recitando la poesia di Natale, emozionati e arrabbiati perché ci accorgevamo che il pubblico era distratto, disilluso, cinico, e che non lo avremmo cambiato mai. Sono stati loro i migliori a sottoporre al pubblico il tema dei temi e cioè la disperata fame d’amore che abbiamo e la disperante indisponibilità a ridimensionarci e sacrificarci per lui. “Stammi vicino e tienimi lontano” canta Franco126 nel suo disco uscito alla fine di gennaio, ed è il verso dell’amore ai tempi dell’autostima e del burnout, l’amore del millennial. “Tu stammi vicino anzi lontano abbastanza”, cantano gli Zen Circus. “L’amore è una dittatura fatta di imperativi categorici ma nessuna esecuzione mentre invece l’anarchia la trovi dentro ogni emozione”. Con cornice generazionale: “Pagati per immaginare qualcosa che non puoi fotografare, mi spiego meglio, senza nascondermi dietro a cazzate scritte per caso (…) siamo delle antenne, dei televisori, emettiamo storie che fanno rumore, cerchiamo la donne della vita o l’uomo della morte”.
Gli Ex Otago, iscritti all’anagrafe indie come anche gli Zen Circus, hanno così cantato: “Dormire con te stanotte è importante perché ci vogliamo bene e non è semplice restare complici, un amante credibile, quando l’amore non è giovane, non è semplice scoprire nuove tenebre tra le tue cosce dietro le orecchie quando l’amore non è giovane”. Il frontman (millennial, quindi non vecchio ma precocemente invecchiato – dal precariato e dai genitori invadenti, come tutta la sua generazione), tutte le volte che ha finito di cantare ha abbracciato una ragazza del pubblico. La prima volta abbiamo pensato a un tentativo di parafrasare Favino, che lo scorso anno scese in platea per portare i panini a moglie e figlia, spiegando che le sue ragazze, diventano aggressive quando vengono tenute lontane troppo a lungo dal cibo. Ma gli Ex Otago non hanno procurato viveri. Il loro è stato forse un modo per inscenare un rimborso per tutto quell’amore detto male, stentato, quel voler dormire insieme per tenersi caldi, per abitudine, quel voler ribadire che amarsi dopo le prime tre settimane è una gran fatica, ma tocca, a meno che non si voglia morire soli e finire divorati dai cani alsaziani.
Anna Tatangelo, oberata dalla necessità di spiegare agli italiani come e perché è tornata insieme a Gigi D’Alessio, ha cantato qualcosa di molto simile, sin dal titolo, “Le nostre anime di notte”, come il romanzo di Kent Haruf che racconta l’incontro di un uomo e una donna anziani e soli, che decidono di cominciare a dormire insieme per tenersi compagnia e parlare, finendo poi con l’innamorarsi o forse semplicemente volersi bene e rinunciare a sciogliersi l’uno dall’altra. L’epilogo degli Ex Otago lo canta così Tatangelo: “Allontanarsi non è mai la fine se si ha il coraggio di ricominciare ma non è facile quando si perde la complicità e adesso siamo qui (…) ormai non serve illuderci, non c’è bisogno di fingerci forti”.
La meno giovane di tutti e però la più viva, Patty Pravo, la sola a dirsi disposta a un nuovo inizio. Il crimine del sedicenne di Silvestri
Siete depressi? Già. Ecco perché quando è arrivato sul palco Umberto Tozzi e ha cantato “Gloria manchi tu nell’aria manchi ad una mano che lavora piano manchi a questa bocca che cibo più non tocca” si sono scatenati tutti, s’è semi mossa perfino la direttrice di rete Teresa De Santis e Sandra Milo ha saltato come una sedicenne. Quando si scrivevano canzoni così era superfluo ricordare ai sedicenni di “non spegnersi”, come ha fatto Daniele Silvestri che, accompagnato da tale Rancore (il colpo tramortente!), bizzarramente s’è presentato con un testo che i sedicenni li dipinge come figli nati in galera da madri ergastolane. “Ho sedici anni e vivo in un carcere se c’è un reato commesso là fuori è stato quello di nascere”. Il Moige di Striscia la notizia non ha avuto niente da dire, non ha rilevato in questi versi un’induzione alla cocaina, se non addirittura al guidare a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire. Anzi! Il Silvestri è stato unanimemente osannato come grande interprete del disagio giovanile. Chi ai sedici anni è assai più vicino di Silvestri, avendone venti, canta che: “A volte dirsi ti amo è più finto di un dai ci sentiamo, ho il tuo numero ma non ti chiamo, a te fa bene a me fa strano, prima facevi monologhi ora parli a monosillabi”. La canzone è “Senza farlo apposta” di Federica Carta (vent’anni) e Shade (trentuno) e come è evidente senza bisogno d’esser esegeti assomiglia più al tema dei temi, quel volersi vicini tenendosi lontani, che alla gabbia d’inquietudini che ha raccontato Silvestri.
La meno giovane di tutti e però la più viva, Patty Pravo, è stata la sola a dirsi disposta a un nuovo inizio, a mettere i puntini di sospensione laddove gli altri hanno messo solo definizioni e punti: “Vorrei trovarmi nell’esatta condizione di una luce alla stazione su un binario abbandonato dove il viaggio non è mai iniziato per poi gridare a me che non credo che l’orizzonte è l’unica cosa che vedo”. Quindi, il sedicenne di Silvestri, il più titolato a sbranarsi la vita, pensa d’aver commesso un crimine a venire al mondo; la signora Pravo, di qualche decennio più in là, vuol ancora “restare qui a capire come illuminarmi il cuore”. L’unico vero disastro generazionale, la sola reale frattura tra quelli di prima e quelli di ora è che agli over sessanta viene da vivere assai più che agli under trenta.
Innamorati pochi sul palco: quest’anno scaldano molto di più i soldi e il loro rigetto, la decrescita, il dialetto, il sesso anziano
Tant’è vero che, senza suo nonno, Enrico Nigiotti canta di sentirsi perduto, immalinconito senza rimedio, condannato alla nostalgia irredimibile dei pomeriggi trascorsi con lui e fischiare alle donne dal finestrino, a parlare della vecchia Livorno (bella Livorno!), a litigare con la gente agli incroci. Senza nonno, non resta che “un mondo a pile, centri commerciali al posto del cortile una generazione con nuovi discorsi si parla più l’inglese che i dialetti nostri”. E’ un inno perfetto per il prossimo raduno di Pontida, l’abbiamo già scritto e segnalato, Capitano per favore ci tenga contenti. (Segnaliamo sommessamente che Nonno Hollywood, in un pezzo che si rammarica del fatto che il mondo parla inglese e non toscano, soffre della medesima contraddizione della merenda anti Starbucks che Diego Fusaro condivise su Facebook qualche mese fa, dove comparivano pane, pomodoro, mozzarella e un’Ichnusa, che per la sfortuna del teorico dell’anti mondialismo è prodotta dalla Heineken, non dai monaci sardi).
Il coro intorno ai valori semplici e genuini della vita, non importa se imbottigliati in Cina, è stato unanime come sempre e forse di più. Simone Cristicchi ha cantato che non si deve cercare un senso a tutto “perché tutto ha senso, anche in un chicco di grano si nasconde l’universo”. Arisa che “credere all’eternità è difficile basta non pensarci e vivere e chiedersi che senso ha è inutile, ritrovare un senso a questo assurdo controsenso è solamente la più stupida follia”. Giustamente, i Negrita consigliano di brillare per poi esplodere, “ché la vita è una poesia di storie uniche e poi ritrovarsi qui sempre più confusi e soli, tanto ormai non c’è più tempo che per essere crudeli”.
E invece non è vero, e lo sappiamo benissimo. Ha ragione ancora Fossati, e sempre ce l’avrà: “C’è tempo, c’è tempo, c’è tempo per questo mare infinito di gente, è tempo che sfugge niente paura, che prima o poi ci riprende”. Lo cantava molti anni fa, va bene, ma allora come ora eravamo un mare infinito di gente, nata sotto il segno dei pesci.