E poi venne il '69
L’anno che cambiò la musica. Germogliano i semi dei Sixties: nascono hard rock, fusion, progressive. E anche gli italiani si fanno sentire
Le prime celebrazioni ci sono già state il 30 gennaio per la ricorrenza del leggendario “rooftop concert” dei Beatles. E altre, ancora più imponenti, se ne preparano per quest’estate, quando compirà cinquant’anni Woodstock. Ma in realtà, tutto questo 2019 sarà un continuo, ottimo pretesto per ricordare, mezzo secolo dopo, “l’anno che cambiò la musica”: l’incredibile 1969.
L’ultimo anno dei Sessanta fu un momento cruciale nella storia della musica e del rock. L’anno di un nuovo inizio, in cui i semi dei Sixties cominciarono a germogliare, dando vita a nuovi filoni, nuove strade che si sarebbero sviluppate nel decennio successivo. No, il 1969 non fu un anno come gli altri per la storia della musica. Fu l’anno del tramonto dell’età dell’innocenza, il preludio dei Settanta e di quella stagione tormentata e autodistruttiva molto lontana dall’ottimismo del decennio precedente.
La stagione hippie andò a morire in quei mesi di cinquant’anni fa. In agosto l’apoteosi di Woodstock, con un fiume di star sul palco
Un anno di fine e di inizio fu quello della Luna. La stagione hippie, figlia dell’Estate dell’amore del 1967, andò a morire proprio in quei mesi di cinquant’anni fa. Col canto del cigno di Woodstock, il grande festival “peace and rock” a cui fecero tragicamente da contraltare gli eccidi della “Family” di Charles Manson, avvenuti negli stessi giorni sull’altra costa. I massacri degli hippie invasati guidati da Manson, soprattutto la strage in cui perse la vita l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, con le parole delle canzoni dei Beatles scritte sui muri con il sangue delle vittime, rappresentarono il requiem per quella stagione di utopia. E non solo quelli. Perché un’appendice tragica sarebbe seguita da lì a breve, a dicembre, con il concerto gratuito organizzato dagli Stones ad Altamont, un altro bagno di sangue, “la fine delle illusioni” la chiamarono nella controcultura. In quattro morirono nel corso dell’evento californiano voluto da Jagger e compagni nel loro anno più buio, quello in cui a luglio era stato trovato morto nella sua piscina Brian Jones (mollato da poco dalla band). Una delle vittime di Altamont, un ragazzo afroamericano, fu ucciso dal servizio di sicurezza degli Hell’s Angels. Fu la chiosa dell’anno della fine dell’utopia, un’atmosfera da caduta degli dei che riecheggia nel sound di uno dei dischi più importanti dell’anno, “Volunteers” dei Jefferson Airplane, ideale colonna sonora di un sogno infranto.
L’apoteosi hippie di Woodstock, il grande festival che si tenne tra il 15 e il 18 agosto poco lontano da New York, sarà ricordata in questo 2019 per il suo cinquantennale con almeno due grandi eventi a cui si sta già lavorando. Impossibile, ovviamente, ricreare il clima da leggenda di quei giorni. Che videro arrivare nella piccola cittadina di Bethel, per quello che in partenza sarebbe dovuto essere uno dei tanti festival musicali dell’epoca, una fiumana di star: Richie Havens, Ravi Shankar, Joan Baez, Santana, Janis Joplin, The Who, Jefferson Airplane, Creedence Clearwater Revival, Joe Cocker, Crosby, Stills, Nash and Young, Jimi Hendrix, solo per citarne alcuni. La settimana prima, al 10050 di Cielo Drive, sulle colline di Bel Air in California, Sharon Tate e quattro suoi amici erano stati massacrati da Manson e i suoi. Che l’indomani uccisero anche l’imprenditore Leno LaBianca e sua moglie, a forchettate. Il “movimento” mostrava un’altra faccia, di violenza e follia. E qualcuno cominciava a intravedere come quella faccia mostruosa non fosse in realtà solo un “incidente di percorso”. Invitati a Woodstock, ad esempio, i Jethro Tull rifiutarono perché Ian Anderson, frontman del gruppo, pur conscio della grandezza dell’evento, optò per il no a causa della sua avversione nei confronti del mondo hippie e dei suoi annessi e connessi, soprattutto l’uso di sostanze stupefacenti, l’abuso di bevande alcoliche e gli eccessi in generale.
“Space Oddity” di David Bowie segna l’inizio del transito dalla psichedelia al glam rock. I Pink Floyd dominano la scena
Le violenze della “Famiglia” di Manson scossero l’America. Ma la lunga striscia di sangue e violenza che turbò gli Stati Uniti era già cominciata nel 1968, l’anno degli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy, e continuava nel ’69 con un’ombra cupa che si allungava sul movimento giovanile. La musica ne risentì, inevitabilmente.
Il 1969, così, diventa l’anno dei nuovi inizi. L’anno in cui tutto cambia. L’anno in cui lunghe ere si chiudono aprendo la strada al futuro. E’ l’anno, epocale per la chiesa cattolica, in cui esce di scena la messa in latino. E’ l’anno in cui si chiudono l’èra di Charles de Gaulle in Francia e dei democristiani in Germania, dove va al potere il socialdemocratico Willy Brandt aprendo la stagione dell’Ostpolitik. Pagine di storia si chiudono, altre se ne aprono: è l’anno dell’Apollo 11 e della passeggiata sulla Luna di Armstrong e Aldrin, l’anno dell’inizio del terrorismo in Italia, il 12 dicembre a piazza Fontana, l’anno in cui irrompono sulla scena i rivoluzionari arabi, Muammar Gheddafi in Libia, Yasser Arafat in Palestina.
Una settimana prima di Woodstock, Sharon Tate e quattro suoi amici erano stati massacrati da Manson e i suoi
E i nuovi inizi abbondano in maniera impressionante nel rock. I Sessanta furono il tempo della semina, dei Beatles soprattutto, ma anche di Stones, Who e via discorrendo. Nel ’69 i frutti cominciano a maturare. E nel grande albero del rock si dipartono nuovi rami che si irrobustiranno nei Seventies. Con “Tommy”, Pete Townshend e i suoi Who realizzano in quell’anno la prima, grande opera rock. Un album concept su un ragazzo cieco, sordo e muto che diventa un mago del flipper: un visionario caposaldo della storia della musica. C’è voglia di sperimentare, di battere strade nuove. I Beatles hanno già fatto tanto, spargendo semi per un decennio. In questo ’69 che li vede arrivati ormai al capolinea, a un passo ormai dallo sciogliersi, i Favolosi Quattro fanno in tempo a registrare il loro ultimo album, il penultimo per pubblicazione, che è anche probabilmente quello suonato meglio della loro storia. Il disco è “Abbey road”, quello con la celeberrima copertina sulle strisce pedonali. Il lato B è un lunghissimo medley di pezzi di canzoni senza soluzione di continuità, con McCartney in bella mostra, forse anche per questo Lennon non lo amò mai molto. La storia dei Fabs volge al termine sul quadruplice assolo di “The end”: John Lennon è già concentrato su pacifismo (il movimento adotta come inno la sua “Give peace a chance”, incisa in quell’anno, quello dei discussi “bed-in” di protesta, sul lettone con Yoko Ono) e sperimentazioni artistiche, George Harrison ha raggiunto una maturità autoriale che lo fa scalpitare visti gli spazi angusti che i soci John e Paul gli lasciano, soltanto Mc Cartney crede, ma ancora per poco, nella band. Che si scioglierà nei primi mesi del 1970, lasciando libera la scena a nuovi protagonisti. Come David Bowie, che in quel ’69 pubblica “Space Oddity”. Il secondo album del Duca Bianco esce a novembre e segna l’inizio del transito dalla psichedelia al glam rock, un’altra linea che si svilupperà negli anni Settanta dai semi piantati nei Sixties. E’ un fiasco commerciale ma si rifarà solo pochi anni dopo, quando i tempi saranno maturi. E a proposito di psichedelia, a dominare la scena ci sono i Pink Floyd, orfani di del “Diamante Pazzo” Syd Barrett. Il 1969 per la band di Waters e Gilmour è l’anno di “Ummagumma”, con le sue ardite sperimentazioni. Il titolo suonava privo di senso dappertutto fuorché nel Cambridgeshire, nel cui slang la parola indicava l’atto sessuale.
I Beatles registrano il loro ultimo album. Pete Townshend e i suoi Who realizzano la prima, grande opera rock: “Tommy”
La musica sta cambiando. Basta guardare alla discografia dei Beatles e ascoltare in sequenza un brano come “I want you (she’s so heavy)” e uno come “Baby is in black” del 1964, per faticare a credere che la musica abbia compiuto in soli cinque anni un percorso che sembra maturato in decenni. Gli ultimi scampoli di Sixties risuonano come un’eco in qualche hit del ’69 come l’evergreen “Sugar Sugar”, fortunato brano del cartone Archie e Sabrina (ricordate i “Compagni di scuola” di Carlo Verdone che la ballavano con nostalgia?). Frank Sinatra incide “My way”, Elvis Presley riassapora il grande successo dopo un periodo oscuro. Ma sono appunto le ultime note di un’èra che saluta e se ne va. E lascia posto ad altre strade che si aprono. Quella dell’hard rock, anzitutto, con i due primi album dei Led Zeppelin, energia pura. “Led Zeppelin” e “Led Zeppelin II” escono entrambi nel ’69 ed esplodono come due bombe sulla scena musicale. La batteria di John “Bonzo” Bonham batterà il tempo del rock per il decennio a venire. La chitarra di Jimmy Page irromperà come un marchio di fabbrica, l’incipit di “Whole Lotta Love”, che apre “Led Zeppelin II”, traghetterà definitivamente la musica nei Settanta. Il ramo dell’hard rock nasce così. Insieme ad altri, sempre in quello stesso anno. Quello del folk rock, ad esempio, con Crosby, Stills & Nash. Ma anche, in qualche misura, dei Velvet Underground, che sempre più a immagine e somiglianza di Lou Reed pubblicano nel ’69 l’album omonimo. E soprattutto, sua maestà il progressive, in cui si scioglierà la psichedelia. Il primo disco di quel nuovo genere che dominerà i primi Settanta esce proprio nel 1969, è “In the Court of the Crimson King”, dei King Crimson (in cui milita Greg Lake, che da lì a pochi mesi creerà con Keith Emerson e Carl Palmer il “supergruppo” che spopolerà nei Settanta). La traccia d’apertura, “21st Century Schizoid Man”, diventerà un brano simbolo del rock progressivo, quel percorso artistico che cercherà di fornire spessore alla musica “leggera”, contaminandosi con altri generi, classica inclusa, allungando a dismisura la durata dei brani, curando maggiormente esecuzione e arrangiamenti, introducendo strumenti poco utilizzati nei Sixties. Si affaccia sulla scena un genere che vedrà da lì a breve l’Italia finalmente protagonista sul palcoscenico internazionale, con i successi planetari della Premiata Forneria Marconi e quelli nazionali delle altre band prog nostrane, dal Banco del mutuo soccorso ai New Trolls, dalle Orme agli Area del “maestro della voce” Demetrio Stratos. E a proposito di vagiti di nuovi generi, i critici datano al 1969 anche gli albori della fusion, con due album leggendari, “Hot Rats” di Frank Zappa e “In a silent way” di Miles Davis. La fusione tra gli stilemi jazz e gli strumenti del rock comincia da lì e proseguirà nel decennio a venire. E pensare che il disco di Davis registrò anche delle stroncature dai puristi dal jazz che criticavano l’imbastardimento del genere per fini commerciali. E ancora, il ’69 è l’anno di “Kick out the jams”, lo storico album degli MC5, precursore del genere punk, che compie cinquant’anni proprio in questi giorni. Da qui a dicembre, insomma, il cinquantennale di “qualcosa” non mancherà mai e ogni mese sarà quello buono per celebrare il tempo in cui il rock divenne grande.