Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti (Foto LaPresse)

E questo è Lorenzo

Sergio Garufi

Sole e luna insieme. La ritrosia, i silenzi, la solitudine delle letture: Jovanotti lontano dal palco. Un ritratto nel segno di Cortázar

L’ultima volta che ci siamo visti, al Palalottomatica, ne ho avuto la riprova definitiva. Non che non lo avessi intuito già da tempo, ma un conto è sospettarlo, e un altro è sentirselo dire da degli estranei e poi vedersi insieme in foto: io e lui siamo il giorno e la notte. Lorenzo stava per salire sul palco per una delle dieci date, ovviamente tutte sold out, in programma a Roma. Un mese prima lo avevo avvisato per mail di aver comprato il biglietto il tal giorno e lui, generoso come al solito, s’era offerto subito di cambiarmelo con uno di quelli speciali per i suoi ospiti, ma io avevo preferito non accettare, tanto poi l’avrei visto in privato. Eravamo d’accordo infatti che al mio arrivo al Palazzetto avrei chiamato una sua assistente che mi avrebbe condotto da lui in camerino.

 

“Non mi affeziono alle case”. Non è un tipo nostalgico, è sempre proiettato in avanti, pieno di idee, di slanci, di imprese mirabolanti

Giunsi in anticipo ma c’era già una discreta folla davanti ai cancelli dell’arena. Entrai e presi posto nel terzo anello laterale, lo spicchio in alto più lontano dal palco, perché quello permetteva il mio portafoglio. Intorno a me c’era un campionario di gente molto assortito, coppie di fidanzati, gruppi di amiche, una famiglia al completo con genitori miei coetanei e figli adolescenti, tutti con qualche segno distintivo di appartenenza alla stessa tribù. Era una festa collettiva, e l’unico da solo ero io. Dopo poco venne a prendermi la sua collaboratrice, che seguii nei tortuosi meandri del palazzetto, finché raggiungemmo una stanza con un divano in pelle azzurra e una tavola imbandita. C’era un’atmosfera rilassante in quel camerino, vagamente new age: luci soffuse, un tappeto écru, le tende e un copritavola chiari e pure dei palloncini colorati, tutto avvolto in un silenzio irreale, considerato cosa si stava per scatenare poco sopra. Sembrava una specie di camera di compensazione per la fase dell’iperventilazione necessaria prima del lungo bagno di folla, come usano fare i campioni di apnea nell’imminenza di un’immersione.

 

Amavamo entrambi “Rayuela”, capolavoro dello scrittore argentino, un libro feticcio che riaffiora carsicamente nei suoi discorsi

Poi era comparso lui, col suo sorriso contagioso, il cappellino da baseball col proprio nome sopra, una t-shirt bianca sotto a una tuta rossa a righe e ai piedi strascicanti delle ciabatte aperte, da spiaggia, come se al posto di un bagno di folla stesse per fare una pedalata in pattino. Lorenzo sembrava non sentire minimamente la tensione. “Ciao maestro!”, esclamò vedendomi appena entrato. Anche per mail mi chiama così, “maestro” o “capo”, e io ogni volta mi sento il benzinaio a cui il cliente in Porsche chiede di fare il pieno. Non feci in tempo a ricambiare il saluto che mi domandò a che punto ero col nuovo libro. Fa sempre così lui. E’ molto riservato, non ama parlare di sé, mentre io non ho remore, probabilmente per deformazione professionale. Invece di rispondere alle mie domande le rivolta piegandole a quello che vuol dire, o facendomi domande a sua volta e costringendomi a dirottare l’attenzione su di me. Il libro che sto scrivendo parla di case, le case degli artisti che ho amato e quelle dei miei genitori. Gli dissi che ero a buon punto e gli chiesi com’era quella della sua infanzia in via Porta dei Cavalleggeri a Roma, dov’era tornato di recente per girare il videoclip di Oh, vita! Pensavo che ce l’avesse portato lì un pizzico di nostalgia e invece niente. “Non mi affeziono alle case”, rispose con tono risoluto. “Poi eravamo in affitto, era di proprietà del Vaticano”, e lui non disponeva nemmeno di una cameretta sua perché dormiva in soggiorno. “La vista era bella, sul cupolone”, proseguì, “ma subito davanti c’era un benzinaio”, e il palazzo era una costruzione piuttosto anonima e fredda, sembrava un pezzo di periferia innestato nel centro di Roma.

 

Insomma, Lorenzo non è un tipo nostalgico, non ha la malattia della casa (nostalgia in inglese si dice homesickness). Mi riecheggiano in testa i versi di Questa è la mia casa, quando ripete insistentemente “la casa dov’è”, come se più che un posto abitasse un’occasione (I dwell in Possibility, diceva Emily Dickinson, a fairer House than Prose). Lui è sempre proiettato in avanti, pieno d’idee, di slanci, di imprese mirabolanti e progetti pazzeschi da realizzare con l’incoscienza e il coraggio dei papaveri che crescono sui binari, come l’ultimo, il Jova Beach Party, che partirà quest’estate e toccherà tante spiagge di tutta la penisola, mentre io al confronto sembro una mummia di Ruysch, intento a propiziarmi il passato più che il futuro. Eppure pensavo che a una certa età, la nostra età, quando superati i cinquanta ti rendi conto che quello che ti resta è meno di quanto ti aspetta, la nostalgia fosse qualcosa di inarginabile. Non per forza la cappa pesante che asfissia, ma quel velo sottile che avvolge le cose, tutte le cose, quando realizziamo che sono solo di passaggio, e che ci induce a ricordare con dolcezza i momenti andati pur godendo appieno del presente, come diceva Julio Cortázar, il nostro fil rouge.

 

Scoprii che amava Borges: gli spedii una copia di “Finzioni” autografata dall’autore, la gemma più preziosa della mia biblioteca

Già, perché fu grazie a lui che ci conoscemmo. Semplicemente, era successo che nel 2014 Lorenzo aveva letto un mio romanzo, forse incuriosito dal fatto che il protagonista fosse un traduttore di Cortázar, cioè di uno dei suoi autori preferiti, e lo aveva consigliato su Twitter alle legioni dei suoi follower. Da lì era partito tutto, i ringraziamenti, le confidenze, la scoperta che ciò che lo aveva toccato erano anche alcune coincidenze dolorose, come la malattia che aveva afflitto le nostre madri nei loro ultimi giorni di vita. Amavamo entrambi Rayuela, il capolavoro dell’argentino, un libro feticcio che riaffiora carsicamente nei discorsi di Lorenzo, ma che ispirò pure una canzone dell’album Safari, e che io scelsi come bussola per il protagonista di un mio romanzo. La verità è che ci sono incontri con i libri che non hanno nulla da invidiare a quelli con le persone, incontri che favoriscono un legame affettivo come se funzionassero da agnizione, da riconoscimento reciproco.

 

“I momenti creativi prendono vita nel silenzio”. La famiglia: “Non ho mai abbracciato mio padre o mia madre, pur volendogli bene”

A vederlo così indiavolato sul palco, quando è tutto amigdala, energia pura, una scarica ininterrotta di adrenalina, riesce difficile immaginare Jovanotti “ensimismado”, per usare un termine cortazariano, cioè completamente assorto, rapito dai propri pensieri, immerso in letture dilatate nel tempo e nello spazio da una solitudine inviolata, come si vede nelle foto che posta di tanto in tanto su Instagram, eppure le due cose sono collegate. “I momenti creativi prendono vita nel silenzio, si nutrono di solitudine, anche di senso di scoraggiamento”, ha scritto nel suo libro Gratitude. Ed è proprio alla ricerca di quei momenti che sono progettati i suoi viaggi. Viaggi agli antipodi, di esplorazione della solitudine e dei suoi infingimenti, interrogazioni del vuoto, come per il soggiorno nel deserto raccontato ne Il grande boh, la convivenza con la famiglia di nomadi berberi coi quali non scambia una parola ma s’intende a gesti, le storie dei piccoli Hassan e Mina che imparano a fare i pastori, e la commovente capra zoppa che segue il gregge finché non è costretta a tornare indietro perché non regge il passo delle altre. Lì si avverte una grande disposizione all’ascolto e all’osservazione, che è poi il sintomo più nobile di ogni autentica vocazione artistica, ma anche il bisogno ogni tanto di sparire, di non esserci più per nessuno, neanche per sé stesso, e farsi sguardo stupito e beato, appagato solo della propria assenza.

 

E’ raro che Lorenzo parli nei suoi libri dei rapporti con la sua famiglia, ma quando lo fa lascia sempre il segno, e si apre per un istante uno spiraglio che fa intravedere cosa si cela nel sancta sanctorum del suo cuore. In quegli accenni si intuisce che lì qualcosa è mancato, come quando dice “non ho mai abbracciato mio padre o mia madre pur volendogli bene”, ma lui riesce a restituirlo nelle sue canzoni, come la struggente Le tasche piene di sassi, dedicata alla madre Viola da poco scomparsa. “On ne parle jamais de soi sans perte”, avvertiva Montaigne, e forse è quel timore a frenarlo dall’aprirsi ancora, ma al di là di comprensibili reticenze, il pregio maggiore dei suoi libri è che non si fanno irretire dallo sguardo meduseo del verbo essere, come in quelle vite un po’ troppo autobiografiche in cui la star sale sul piedistallo, edifica il monumento di sé stesso, e ammorba l’uditorio ripetendo fino allo sfinimento “io sono, io sono, io sono”.

 

Ma che tipo di scrittore è, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti? Prendendo per buona la celebre ripartizione di Isaiah Berlin, che si divertì a dividere gli scrittori in due opposte fazioni: i ricci e le volpi, con i primi dominati da un unico, totalizzante principio ispiratore, e le volpi che perseguirebbero invece una molteplicità di fini senza curarsi troppo di tradurli in una visione organica, direi che il cortonese appartiene sicuramente alla seconda categoria. Ma anche fra i lettori ci sono i ricci e le volpi, e se i primi debbono fare di ogni autore un’esca per i propri fantasmi, i secondi preferiscono fungere essi stessi da esca destinata ad attirare i fantasmi altrui. E anche in questo caso Lorenzo si conferma una volpe, e l’esca per il suo amato Cortázar è il rito della preparazione del mate, grazie al quale si danno convegno le sue creature fantastiche più folli e adorabili, i cronopios e i famas, protagonisti di uno dei suoi libri più fortunati. I famas sono nostalgici per natura, imbalsamano ed etichettano i ricordi, mentre i cronopios incarnano l’intuizione e la poesia, come quando disegnano una rondine sul guscio delle tartarughe per farle sentire più leggere. E non è un’invenzione da cronopio, l’estro stralunato del videoclip di Come musica, che simula la danza di elefanti ammaestrati davanti al domatore utilizzando degli escavatori meccanici? Eppure, è lo stesso argentino a mettere in guardia il lettore dalla comoda scappatoia della mera contrapposizione. “Non esistono cronopios senza famas, è la dialettica della specie”, perché il fantastico non è che il quotidiano visto sotto una luce di rivelazione. Ecco, a volte i cosiddetti opposti sono categorie relazionali, in cui ciascuno detiene il senso dell’altro, come nella foto che ci scattò alla fine l’assistente di Lorenzo, in cui sembriamo Don Chisciotte e Sancho: lui alto, secco e lancia in resta, e io invece Panza di nome e di fatto. Più tardi, rientrato al mio posto sul terzo anello, cercando di mandare col cellulare alla fidanzata la foto con Jova, attirerò l’attenzione dei miei vicini, la famigliola di prima, il cui padre mi chiederà speranzoso: “Scusi, dove ci si mette in coda per la foto con lui?”. E io, dopo un attimo di smarrimento con la classica fronte aggrottata, risponderò tutto fiero: “Mah, veramente l’ho fatta nei camerini, perché lo conosco”, provocando un sorriso di degnazione condito da un “Sì, vabbè”. Come a dire: questo vuol farci fessi, si spaccia per amico suo e intanto chissà perché sta qui in piccionaia come noi.

 

Quando feci notare a Lorenzo la mia scarsa fotogenia lui glissò elegantemente e mi confessò, come a restituirmi lo scettro, che stava leggendo il Don Chisciotte riscritto da Perez Reverte, aggiungendo: “Lo so che non è culturalmente una cosa da dire in giro, ma siccome non l’avevo mai letto mi sono dato alla versione facilitata”. Io incassai l’ennesimo “capo” e gli consegnai il pacchetto che mi ero portato dietro, un libro di Piero della Francesca, la copia anastatica del trattato De Prospectiva Pingendi. Un po’ perché su Instagram aveva postato le immagini di alcune sue opere, come la Resurrezione e la Madonna del parto, e un po’ perché Piero è casa sua, sta a un tiro di schioppo da Cortona e quello era un volume raro, che difficilmente possiede anche chi come lui ha tutto. E inoltre mi piace la prospettiva, e penso che dovrebbe piacere anche a lui, l’idea che a dispetto delle leggi di questo stupido mondo euclideo, per le quali due linee parallele mantengono sempre la stessa distanza e non s’incontrano mai se non all’infinito, i nostri occhi invece trovano il modo di farle avvicinare e congiungere. Lorenzo sfogliò le tavole con attenzione, si soffermò un attimo su quelle metafisiche dei volti da manichini composti da numeri, poi disse che lo avrebbe mostrato alla figlia Teresa, che studia arte e ama tanto il Rinascimento.

 

Con lui mi sento costantemente in debito da quando parlò del mio libro, e non vorrei sembrare uno dei tanti questuanti che gli chiede sempre qualcosa, come se l’attenzione che il fan presta alla celebrity dovesse per forza essere restituita in qualche modo. Ricordo che sotto il tweet in cui elogiava il mio libro vidi diversi commenti, e prima di aprirli pregustavo una bella discussione letteraria, poi invece scoprii una pletora di richieste che non mi riguardavano minimamente. Cassintegrati che imploravano una sua visita, i volontari di un canile che speravano in un retweet, altri che lo pregavano d’indossare una maglietta per un’iniziativa benefica, tutta un’umanità di bisognosi. Ci rimasi male e capii che quella era la sua routine: essere assediato da un’infinità di richieste di sconosciuti, dall’autografo al selfie al prestarsi come testimonial. D’altronde, sull’ambiguità del rapporto tra idolo e fan c’è una letteratura sterminata, dalle riflessioni di Elizabeth Costello di Coetzee fino all’iperbole macabra di Misery di Stephen King. Così per distinguermi decisi di astenermi dal chiedergli qualsiasi cosa, fosse anche un semplice biglietto omaggio. Anzi, avrei cercato di sdebitarmi a mio modo per la pubblicità che mi aveva fatto, come quando scoprii che amava Borges e gli spedii una copia di Finzioni autografata dall’autore, la gemma più preziosa della mia biblioteca, il libro che mi sarei portato nella tomba come Eleonora d’Aquitania. Infine ci salutammo affettuosamente, e nell’attimo in cui si sciolse l’abbraccio, l’attimo che precede l’allontanamento, quando scivoliamo all’indietro come un moonwalk dell’anima e comincia la prima rotazione del corpo, in quella sorta di stallo in cui forse, per me, si racchiude il mistero e la magia dei rapporti umani, scorsi ai margini del mio campo visivo un’immagine familiare. Era un piccolo adesivo appiccicato sulla custodia di una chitarra, il logo di Soleluna, la casa discografica di Lorenzo, con i due corpi celesti uniti insieme, il grande astro incandescente e il piccolo satellite che vive di luce riflessa, e quella mi parve la risposta a tutte le mie domande, come se avessi raggiunto l’ultima casella di Rayuela, il mitico Ygdrissil, il centro del mandala.

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