Era di maggio
Unirsi nel sollievo, non nella lotta, per non sentirsi soli. Quest’anno al concertone il più impegnato era un ragazzo con strass e paillettes
Il più politico di tutti, a piazza San Giovanni, è stato Achille Lauro. Ha detto: “Chiedo gentilmente a tutti di spegnere il cellulare e godersi la festa. Chiederei anche di levare i vestiti, ma sarebbe troppo”.
L’impegno politico non è sparito, ma è cambiato: è diventato occuparsi di sé, o del mondo affinché si occupi di te
Samuel dei Subsonica, dopo Silvestri e Agnelli e Anastasio, è stato il solo a ricordare che il Primo maggio è il Primo maggio, e su coraggio
Via il telefono, cioè il burn out, l’infinita presenza, l’assoluta reperibilità, il 24 h, e giù i vestiti, cioè la recessione sessuale, la solitudine, l’inibizione di tutto, la priorità garantita al sé piuttosto che al noi, il terrore dell’altro, il controllo sull’altro, il confine. Non ci vuole più un fisico bestiale per salire sul palco del Primo maggio e non dire qualcosa di sinistra, non è più tempo di Piero Pelù che scalciava urlando “Sono qui perché il mio sangue è rosso e il mio cuore batte a sinistra”, delle ballate di Goran Bregovic, della kefiah arrotolata al collo o in vita o allo zainetto, di Bella Ciao e partigiani omaggiati dai Modena City Ramblers – un Bella Ciao lo ha accennato sul far della sera un’arpista vestita di pelle e cuoio, dopo un paio di note in tributo a Fabrizio De André, e la casella della tradizione è stata riempita così, in due minuti e mezzo. L’impegno politico non è sparito, ma è cambiato: è diventato occuparsi di sé, o del mondo affinché si occupi di te, e ti lenisca la solitudine, il vuoto, l’ambascia, la tristezza, la viltà. Apripista Brunori Sas, forse, che due anni fa a piazza San Giovanni cantò “Te ne sei accorto o no che non c’hai più le palle per rischiare di diventare quello che ti pare e non ci credi più” e l’indie underground storse il naso (come sempre), mentre il popolare accolse con entusiasmo la novità del politico esistenziale.
Quest’anno il più impegnato di tutti è stato un non più ragazzino ma comunque ragazzo vestito di strass e paillettes, un cowboy metrosexual e però molto sexy, che nella conta di quanti maschi e quante femmine c’erano sul palco segna punto per il maschile e per il femminile, segna punto per il fluid, e chissà quando lo capiranno i grandi (noi) che la preoccupazione del genere non riguarda che loro (noi), e il futuro la archivierà a breve tra le cose inutili per cui l’umanità s’è incomprensibilmente dannata, come la verginità, o l’onore. “Vi sembra una polemica seria?” ha sbraitato Ambra Angiolini quando le è stato chiesto di commentare la lettera aperta di certune donne del Pd al sindacato perché la presenza femminile al Concertone era troppo risicata – “scelta intollerabile e ingiustificabile” – e zitti tutti, tranne una ex docente di Amici di Maria De Filippi, Grazia Di Michele, che l’ha accusata di essere poco solidale con le donne e per poco c’è mancato che le dicesse “Sei misogina come il tuo ex marito”, e anzi glielo ha detto: “Ora capisco Francesco Renga, quando diceva che le voci femminili sono sgradevoli”. Finisce sempre a signore che si tirano le trecce, mentre si danno del “mia cara”, come nella chat WhatsApp delle donne del Pd, incerte sul “firmo o non firmo?”, “faccio autocritica o no?”, “se mi distanzio dai compagni che sbagliano sono più onesta o più stronza?”.
Meno male che sparirà il genere, uh, che liberazione.
Achille Lauro è stato il più abile a riassumere l’emancipazione che serve, che cerchiamo, che vorremmo, che sembra non avere troppo a che fare con quel “Diritti, lavoro, stato sociale” proiettato sul palco, accanto a “La nostra Europa”, che sono entrambi slogan lontani, politicizzati ma meno politici di uno “spegnete tutto”. Manuel Agnelli ha detto: “Ragazzi, è sempre bello vedervi così tanti, bravi, la partecipazione è importante”, dopo aver nominato Kurt Cobain, che si suicidò il 5 aprile del 1994, quando credevamo che stesse finendo la storia e con essa le guerre e gli stravolgimenti, quando credevamo che stessero arrivando la prosperità, il meglio, il benessere, e invece stava cominciando la fine della fine della terra. Per il giudice Agnelli “la morte di Cobain certificò che non sarebbe cambiato niente” e, rafforzativo che ci sta sempre bene, “come scrisse Tomasi Di Lampedusa tutto cambia affinché non cambi un cazzo” (“Il Gattopardo” è stato più rimaneggiato e straziato di “Besame mucho”). Il giudice Agnelli, per ragioni anagrafiche, non coglie e non può cogliere che il desiderio del pubblico di adolescenti lunghi di piazza San Giovanni non è unirsi nella lotta, ma unirsi nel sollievo, che a nessuno viene più in mente che la libertà è partecipazione, e che tutti partecipano per non restare soli, per fare festa, per riavere indietro la vita separata dalla smania dello scopo, che il concertone è un grande concerto, non un manifesto, né una radiografia del paese, come ha detto Ambra, credendoci molto poco (quante radiografie del paese ha l’Italia, poi: Sanremo, Primo maggio, Un posto al sole, Tg2, Che tempo che fa, elettorato di Salvini – non ci faranno male tutte queste analisi, tutte queste radiazioni?). Manuel Agnelli pensa che valga ancora, per uno che in Italia diventa grande oggi, ottenere rappresentanza da un partito, protezione da un sindacato, ideologia da un musicista, input da un maestro. Non s’accorge che il mondo è, per loro, pianeta, non società. Che il lavoro è fine, non mezzo. Che l’altro è compagnia, non compagno. Che il dolore più gigantesco si sente quando “i giorni passano, passano, passano, e tu non torni qui” (Gazzelle).
Tuttavia Agnelli ha il senso dell’universale e canta “Perfect day” di Lou Reed e la canta male perché non è Lou Reed, però non fa niente, conta il pensiero: “Is such a perfect day, I’m glad I spent it with you”. La giornata perfetta, fuori porta come il Primo maggio di tutti tranne quelli che hanno montato palchi, allestito e condotto dirette, preparato panini, venduto birre, e insomma fatto tutte le cose che consentono alla maggioranza di divertirsi, la giornata perfetta non è a Roma per il concertone, ma quella di Lou Reed in un parco qualsiasi a bere sangria, dar da mangiare alle bestie dello zoo, e poi a casa, magari a vedere un film. Just a perfect day. Non che l’abbiano cantata tutti in coro. Neanche “Wonderwall” l’hanno cantata tutti in coro, e Noel Gallagher ha tenuto contenti i pochi trenta/quarantenni presenti, niente di più. Super ospite per niente super eroe, lui cantava e in piazza i veri protagonisti, i disoccupati di domani, diciottenni di oggi, chiedevano “Ma quando arriva Ghali?”, che non è mica divisivo, o egolatra, o narciso, e anche se ha detto d’essere tornato in Italia da New York apposta per il concertone, lo ha fatto come uno qualsiasi di noi dice “Per Natale vado dai miei”. Più cantato e applaudito di Ghali c’è stato forse soltanto Achille Lauro, sebbene abbia tenuto il palco molto peggio, e abbia cantato malissimo, e sia sembrato molte volte ubriaco (e invece non lo era). Ma un verso come “Sdraiato a terra come i Doors, vestito bene Michael Kors” non c’è bisogno di cantarlo bene, canta da solo, e recita, e dipinge e fa il cinema, come solo certi versi di Paolo Conte. Che verso. La rimozione definitiva dell’immagine inappetente dell’adolescente sprofondato in un divano e vivo per inerzia (lo sdraiato di Michele Serra), sostituita con un damerino maledetto per finta, per gioco, molto logico ma comunque romantico e poetico. Di benvestiti era piena la piazza: le attrezzature da centro sociale (bonghi, narghilè tascabili, bandiere, terrificanti tascapane) riposano in camerette museo di fratelli millennial; le zecche si sono estinte, le felpe pure. L’orgoglio straccione è finito, rimasto confinato al Forte Prenestino, dove il contro Primo maggio romano degli abusivi occupanti militanti (c’è gente che lì vive in tronchi d’alberi) non teme ruspe. Scomparsi persino gli anarchici del tutto inconsapevoli di cosa sia stata l’anarchia, scomparse le A cerchiate dalle t-shirt. A piazza San Giovanni c’erano persino pochi ubriachi, poche coppie di tossici, sbandati, e quella popolazione perduta e calamitante, che al Primo maggio di quei tempi là, quando vestivamo alla Kusturica, s’assiepava in piazza ed erano la prima cosa che vedevano i primi ad arrivare, al mattino, con l’autobus da Foggia o da Catanzaro, maturando lì la fatale decisione di fare l’università a Roma. Quanta colpa ha avuto il Primo maggio nel sovraffollamento degli atenei romani. Quanto merito ha il Primo maggio nei bollini di eccellenza che la Sapienza ha conquistato.
E adesso? Di minorenni arrivati dal sud per il loro primo concerto da soli, da grandi, ce n’erano tanti anche quest’anno, come sempre, e anche loro benvestiti, e senza felpa, e coi Ray-ban, e con le Vans, e le magliette senza slogan, e gli striscioni al posto delle bandiere, tutti nient’affatto preoccupati dall’incisività del sindacato, tutti più o meno già stancati dall’idea di dover lavorare per vivere. Cgil Cisl Uil li portava scritti sul mini maglioncino che ha indossato all’inizio del concerto Ambra Angiolini e non per fede né per omaggio: era una provocazione (ricorderete che lo scorso anno Ambra venne massacrata perché non parve opportuno che indossasse un mini pullover il cui costo qualcuno s’era preso la briga d’andare a controllare, 325 euro, e così i pm di internet avevano scritto “Ecco i veri comunisti”, “Che coraggio ha questa di parlare di chi non ha lavoro”, “A questo serve il servizio pubblico?”). L’ironia è stata apprezzata, fischi non ce ne sono stati, e qualche ora dopo Ambra ha indossato la maglietta di Ilaria Cucchi: sopra c’era scritto “Sulla mia pelle, sulla pelle di tutti”. Fine dei messaggi stampati addosso. Era in giacca Agnelli, come sempre, ed era in giacca di tessuto tecnico ma comunque elegante Daniele Silvestri (meraviglioso, quando ha cantato “Testardo” s’è svegliata Roma e ha posseduto tutto il pubblico). Samuel dei Subsonica dalla cintola in su era vestito come Cremonini quando si veste da crooner. Al pomeriggio ha suonato qualche trapper con la salopette e i capelli rockabilly, qualche indipendente che esiste da anni e con un certo successo, come i Fast Animals and Slow Kids, che il Corriere della Sera, in una gallery ziesca, ha ficcato tra “le nuove band per cui essere originali è un lavoraccio a partire dalla scelta del nome del gruppo”. Gli estrosi sono arrivati in piazza alla sera, per Achille Lauro. Estrosi ma comunque benvestiti, o almeno megliovestiti di quando vestivamo alla Kusturica. I quattro stracci sono stati buttati ieri, e poche ragazze avevano l’aria d’essere “perse a cercar per sempre quello che non c’è”, di avere “la fantasia delle idee contorte”. Nella calca era persino agevole camminare (laddove un tempo sarebbe stato complesso non inciampare in cuccioli d’esseri umani ridotti a barile). “L’ultima volta che sono andato al concertone del Primo maggio con gli amici ero alle superiori. Ore e ore nella folla a guardare gli altri cantare. Mi sono fatto una promessa: ‘La prossima volta qui, sarà sul palco’. Ho fatto il cantante solo perché non mi piace la calca”, ha scritto Ghemon su Twitter, poco prima di esibirsi, anche lui evitando di concionare e d’assomigliare a uno della sinistra antagonista, di quelli che salivano sul palco quando lui stava tra la folla.
Samuel dei Subsonica, dopo Silvestri e Agnelli e Anastasio, è stato il solo a spendere più di qualche parola o breve invito a pensare, di modo che fosse chiaro che il Primo maggio è il Primo maggio, e su coraggio, e ha detto: “La storia ci racconta che ci sono momenti in cui bisogna disubbidire: questo è uno di quelli”. La piazza ha applaudito, naturalmente, a chi non piace venire sobillato, ma è stato un applauso dovuto, senza sangue, senza sugo, senza ciccia. Niente di paragonabile al febbricitante entusiasmo con cui ogni parola di Achille Lauro è stata accompagnata. E’ stato lui il liberatore del giorno, è lui il liberatore di questo tempo, anche se non sembra venire dal futuro, anche se il suo glam non è un inedito, e però Cadillac e Rolls Royce, metafore o no che siano, su quel palco lì non le aveva mai portate nessuno: solamente lo scorso anno e per molto meno – un pulloverino di Alberta Ferretti da 325 euro – s’erano scandalizzati in tanti, troppi.
Achille Lauro lo sa o forse non lo sa perché lo incarna: non vorremmo essere ricchi per sempre, ma sognarlo sì, e poter dire “Voglio una vita così, piena di Rolls Royce”, consapevoli che “il successo è come una Ferrari, bisogna mantenere il turbo, fatti strada e fatti furbo” (e questo lo ha cantato Ghali – il pezzo è “Ricchi dentro”). Vorremmo essere ricchi senza lavorare, ed è un sogno antico, e forse pure sacrosanto. Chissà per quanto ancora lo sapremo sognare, per quanto ancora staremo meglio a casa che in ufficio, per quanto ancora saremo in grado di distinguere tra il fermarsi e il fare una pausa.
Il concertone è un grande concerto, non un manifesto, né una radiografia del paese, come ha detto Ambra, credendoci molto poco
Di benvestiti era piena la piazza: le attrezzature da centro sociale riposano in camerette museo di fratelli millennial
E chissà se i sindacati capiranno che sarà su questo che si soffrirà e già si soffre, che sarà da questo che bisognerà proteggere e tutelare i lavoratori: dall’essere lavoratori per sempre. Landini ha detto che vuole la fusione dei sindacati, quindi per ora è concentrato sulla propria sopravvivenza e resurrezione – Francesco Cancellato ha scritto su Linkiesta: “Quel che Renzi non aveva capito – che i corpi intermedi non andavano combattuti, ma aiutati a cambiare – Landini lo sta offrendo sul piatto d’argento a Nicola Zingaretti”.
Fusi o distinti, disintermediati o intermedi, ai sindacati non preme cosa ne sarà “del tempo che passa la felicità”. Intanto, il pauperismo delle posse lo ha spazzato via Achille.