La performance della cantante islandese Hatari (Foto LaPresse)

L'Eurovision è uno scontro di civiltà

Simonetta Sciandivasci

Dalle contadine polacche a Mahmood. Al via il festival del kitsch europeo

Netta Barzilai, vincitrice dello scorso anno, ha detto che l’Eurovision è “un festival di luce” e che chi boicotta la luce “sta diffondendo le tenebre”. Molto Game of Thrones. Un conto è mettere bandiere nei cuori (la V di Eurovision è sempre un cuore con dentro la bandiera del paese che lo ospita, che quest’anno è Israele), un altro è farli battere. Sul sito del BDS, il “movimento per il boicottaggio di Israele”, quella stessa V è un cuore spezzato e intorno alla parola Eurovision è disegnato un doppio filo spinato. In molti (persino Brian Eno e Roger Waters) non gradiscono che sia Tel Aviv il palco di quella che fino allo scorso anno consideravamo tutti una spassosa fiera del trash e del folk (riproposto in forma kitsch) musicale europeo.

  

 

Alcuni paesi hanno deciso di non partecipare, come si fa per certe manifestazioni politiche (e visto che il vincitore dell’Eurovision sarà proclamato una settimana prima delle elezioni europee più accalorate di sempre, la cosa ha un certo impatto, se non proprio senso). Maruv, cantante ucraina, ha ritirato la sua adesione: se non lo avesse fatto, sarebbe stata estromessa dalla televisione russa per tre mesi. E invece Mahmood, che si esibirà in rappresentanza dell’Italia, e che è anche tra i favoriti (non piace a Matteo Salvini ma piace agli italiani, agli stranieri, e pure al New York Times), è parecchio sereno, come sempre, e a poche ore dall’inizio del festival si è scattato una foto sulle rive del Mar Morto, completamente ricoperto di fanghi. Pensa alla salute, Mahmood. Come l’Europa.

 

Delle preferenze che lo vedono in testa si parla poco, e il chiacchiericcio e il clamore sono tutti per gli eccentrici, forse perché si vuole ancora sforzarsi di lasciare all’Eurovision quello che è dell’Eurovision: il carnevale, la provocazione guascona, la parata di brutti, sporchi e buoni, l’eccesso a fin di bene, l’irrisione dell’identità, il camp. Quest’anno è tutto diverso, e molto più dei freak entreranno in gioco l’irredentismo sovranista, il patriottismo populista, il popolare sanculotto. Vincerà non un artista, ma un paese.

  

Il Corriere ha scritto che l’Eurovision assomiglia ai “Giochi senza frontiere”, che però si tenevano in un occidente che non si era ancora confrontato con la complessità dello stare insieme, e che poteva quindi godersene la retorica senza troppi impicci. Vent’anni fa o anche cinque, se alcune artiste si fossero presentate all’Eurovision vestite da contadine polacche non avrebbero attizzato alcun orgoglio patrio. Quest’anno c’è questo rischio, ma non è una ragione sufficiente per non auspicarci che vincano, anche se i nostri preferiti sono gli Hatari – “complesso artistico techno Bdsm contro il capitalismo” –, che arrivano dall’Islanda (e come si fa a non tifare Islanda sempre e ovunque, dopo la dimostrazione di cosa possono fare i cuori in inverno che ci hanno dato gli islandesi agli ultimi Mondiali?). Tifiamo un po’ anche Lordi, finlandesi metallari, perché si vestono da zombie, e perché tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo amato qualcuno che ascoltava heavy metal, e ne abbiamo conosciuto la disperante tenerezza.

  

Mahmood al Maurizio Costanzo Show assieme al conduttore, Matteo Salvini e Mara Venier (Foto Imagoeconomica)


 

Cosa accadrà se sabato prossimo vincerà Mahmood, e quale pittoresca reazione avrà Matteo Salvini? Sarebbe una vittoria che espliciterebbe la connotazione politica che l’edizione di questo, più degli altri anni, s’è trovata ad avere. Se, invece, vincerà un freak, si moltiplicheranno le metafore sull’Europa (il metaforismo è un’eccellenza ma non un’esclusiva italiana), gli editoriali su come l’Eurovision sia stato l’anticamera delle elezioni. In fondo, l’intenzione fondamentale di chi lo volle, 63 anni fa, era di renderlo un appuntamento culturale capace, con grande leggerezza e ironia, di promuovere l’unità europea. Fateci sapere se vi viene voglia di tifare più Bruxelles per tutti dopo che le polacche avranno cantato girando la zangola per il burro.

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