Michael Jackson (foto LaPresse)

Separare i fatti dalle seduzioni. Il caso Michael Jackson, dieci anni dopo

Simonetta Sciandivasci

Arte e vita, processo e perdono. Una biografia aggiornata

Quando Jacko morì mi sentii sollevata, grata. La morte restituisce a un artista la sua reputazione”. Lo scrive oggi Margo Jefferson nella prefazione italiana al suo “Su Michael Jackson” (appena ripubblicato da 66thA2nd) il libro che scrisse nel 2006, tre anni prima che lui morisse, il 25 giugno di un decennio fa, e tredici prima che le televisioni di tutto il mondo trasmettessero “Leaving Neverland” (LN), il documentario che ha ribaltato quella sua idea sulla morte e sulla giustizia, e che era figlia di un tempo forse più solido del nostro ma, in fondo, ugualmente inclemente. Jackson venne processato e assolto e tuttavia, allora come ora, l’innocenza legale non corrispondeva al proscioglimento pubblico che, appunto, secondo Jefferson sarebbe arrivato solo con la morte. E invece.

 

Tre mesi fa, poco prima che LN andasse in onda, molti giornali scrissero che Paris Jackson, la figlia ventunenne di Jacko, aveva tentato il suicidio e, qualche giorno dopo, rettificarono: si era trattato di un incidente domestico. In “Leaving Neverland”, James Safechuck e Wade Robson raccontano come, quando erano bambini, Jackson li avesse attirati, coccolati, fatti sentire speciali, amati e molestati, circuendo e ingraziandosi anche le famiglie di entrambi, di modo che la riconoscenza verso di lui impedisse a chiunque di rivoltarglisi contro, di distinguere la cura dall’abuso. Lo ricorderete: se ne parlò per settimane, molti artisti inorridirono e giurarono che non avrebbero mai più suonato neppure una nota di MJ, alcune radio decisero di non passare le sue canzoni se non per sempre almeno per un po’, altri ancora si diedero alla filologia criminologica e tentarono di rintracciare, nei testi di MJ, I segnali inequivocabili della sua pedofilia, delle sue innumerevoli, pericolose patologie. Madonna fu una delle poche a dire che non aveva alcuna intenzione di partecipare al linciaggio e che per lei “le persone restano innocenti fino a prova contraria”. Scrive ancora Margo Jefferson nella sua prefazione post “Leaving Neverland” di provare vergogna per non aver riconosciuto, quando scrisse il libro, che MJ era quasi certamente un predatore sessuale, ma di essere convinta, come lo era all’epoca, che “molestia e abuso sono parole dure e inequivocabili, il più delle volte inseparabili dalle lusinghe e dalle ambiguità della seduzione: non dovremmo mai separare i fatti e l’atmosfera della seduzione”. E chissà come avrebbero reagito, negli Stati Uniti, a parole così.

  

Il punto è sempre lo stesso, e non è vecchio ma antico, quindi irrisolvibile, destinato a ripresentarsi sempre: dobbiamo separare l’uomo dall’artista? E come possiamo pensare di farlo, se postuliamo da sempre, e a ragione, che l’arte è vita, e lo è anche quando la vita la ignora? Per Jefferson, che ci si è arrovellata, vergognandosene, sentendosi responsabile (pur essendo consapevole che a rendere intoccabile Jacko c’era un’idea ormai seppellita della pop star come divinità a cui era concesso tutto, abusi compresi), il nostro tempo non sbaglia quando manda a processo l’artista, quando non lo distingue dalla sua arte. Perché quel processo è la sola possibilità che è data all’artista di ottenere il perdono e a noialtri di imparare che i demoni non si possono sconfiggere: si può accettarli e “accogliere ciò che suscitano in noi – ira, sgomento, dolore, compassione – e tentare di trasformarlo in consapevolezza”. Non molto di più di quello che avremmo già dovuto imparare con certi dischi, specie di Michael Jackson, e ci dispiace per Drake, che non li metterà più ai suoi concerti: potremo pur sempre risparmiarci di andarci. Meglio Madonna. Sarà sempre meglio Madonna.

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