Fulminacci, il giovane favoloso
Ritratto canzone per canzone della sua opera prima, che suona da genio, canta da ventenne e pensa da borghese
La targa Tenco per l’Opera Prima è andata la scorsa settimana a un ventiduenne che una volta ha detto: “Al posto della squadra di calcio io ho i Beatles”. Capacità d’impatto degna di Serge Gainsbourg. Rolling Stone ha scritto che è un giovane vecchio, lui ha risposto che invecchiare lo mette a suo agio, ma poi dev’essersi accorto che a ventidue anni quasi non si è neppure nati, e figuriamoci se si può sapere davvero cosa significa invecchiare, e quindi ha aggiunto che adesso sente di avere l’età perfetta, e spera che duri il più a lungo possibile. Si chiama Fulminacci, un nome d’arte nient’affatto studiato, anche se qualcuno ha pensato fosse un’imprecazione mascherata, qualcun altro un omaggio alle esclamazioni dei fumetti di Tex o Braccio di Ferro, e qualcun altro ancora un richiamo bizzarro a Leonardo Fibonacci, il matematico pisano che mise insieme la successione di numeri interi in cui ciascun numero è la somma dei precedenti, ipotesi che gli si addirebbe, visto quant’è preciso, tondo, bravo a far tornare le cose e a far combaciare intuizioni e definizioni.
Fulminacci non è un millennial, se tenete alle classificazioni generazionali e credete che sistemino e spieghino le cose
Invece, la storia è molto più semplice di così, e di farsi chiamare Fulminacci glielo hanno suggerito i suoi parenti, chi lo sa perché, forse semplicemente perché suona bene e un po’ bizzarro, ma soltanto un po’. Dopotutto, dicono (i fan, non i parenti) che sia un genio, però per niente sregolato, e persino molto educato, “uno che dopo i concerti saluta, ringrazia, e se ne va a casa”, ha scritto con molta ammirazione rock.it, portale degli indie originali, duri, puri, certe volte cafoni e pure di quelli ammorbiditi, diciamo arricchiti, certe volte molto cafoni, e star, se esistessero ancora le star.
Il disco di Fulminacci che è stato premiato al Tenco, e che aveva già ricevuto molta attenzione, e un altro riconoscimento (il Giovani Mei - Exitwell) per “la spiazzante versatilità e brillantezza”, si chiama “La vita veramente”, ed è uscito solo tre mesi fa. In copertina c’è lui, questo giovane favoloso (altro che giovane vecchio) che rincorre con un bicchiere un flusso d’aranciata per non farla cadere, o forse che la lancia per aria, e il fermo immagine di un Boomerang di Instagram fa sembrare che faccia il contrario. In entrambi i casi, è un’immagine d’ordine, lo stesso di cui suona, canta, ragiona, e che gli ha fatto scrivere che “Tra un po’ non avrai più vent’anni e la vita diventa un mestiere”, e poi, nella stessa canzone, “strappami la testa dalle nuvole, poi nascondimi, pregami, buttami, accendimi, ascoltami, arrenditi, eliminami”. Un colpo di spugna su quel “la fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada, non farti del male, e trovare parcheggio”, che Motta, e i millennial come lui, hanno cantato molto qualche anno fa, e continuano a cantare ancora, adesso che si s’avvicinano alla fine dei trent’anni, e non è cambiato molto, sono ancora tutti incastrati in un’indecisione, in un’impossibilità, in una ovvietà rubata, nell’attesa di un parcheggio che non sanno dire neppure se non trovano perché non c’è o perché non vogliono trovarlo.
Fulminacci non è un millennial, se tenete alle classificazioni generazionali e credete che sistemino e spieghino le cose.
Se continua a fare musica come fa sarà un eternial.
Fulminacci non è indie, è più It-pop ma non troppo, se proprio tenete ai generi musicali.
Fulminacci è Fulminacci, gli hanno detto che è uno “di rottura”, intendendo che non assomiglia a niente, anche se talvolta ricorda un po’ Jannacci, Battisti, Bersani, De Gregori, insomma gli dei.
Commozione per quel “esseri normali che leggono i giornali”, ché l’ultima musicista a tirarli in ballo è stata Ornella Vanoni
Se i suoi occhi fossero ciliegie non ci troveremmo niente da dire, però non sono ciliegie: sono bussole. E lo si avverte in ogni suo verso il fatto che lui suona per cercare, e trovare, e che lo fa orientandosi, e non lasciandosi andare, lasciandosi sopraffare. Strappami la testa dalle nuvole.
“La vita veramente” (e che titolone, un po’ heideggeriano e un po’ sindacale) comincia con “Tommaso”, che fa così: “Sono molto molto sorpreso dagli anni che mi dai, davvero non lo sai ma quando piangerò lo capirai”. Dev’essere una faccenda cruciale, questa dell’età, per Fulminacci, o forse lo è diventata perché vive in un paese pigro, dove andare avanti significa invecchiare, essere responsabili significa essere giovani vecchi, e dove, soprattutto, conta più l’età dell’identità, perché ci si è convinti che le due cose coincidono, o quantomeno dipendono l’una dall’altra. Quando piangerò capirai quanti anni ho.
All’inizio di “Travels with Charley: In search of America”, John Steinbeck ha scritto che quando era giovane e inquieto gli adulti gli dicevano che l’inquietudine sarebbe passata con la maturità, poi con la mezza età, poi con la vecchiaia, ma “adesso ho 58 anni, niente ha funzionato”. E va bene che erano gli anni Sessanta.
Fulminacci non sembra inquieto, ma un po’ agitato sì – “le domande mi mettono a-a-agitazione” – perché è in costruzione, e di questa costruzione non possiede il piano, ma vuole tentare di tenere sotto controllo lo sviluppo. E’ per questo motivo che protegge gelosamente la pace, la logica, il silenzio, l’evidenza e l’espressione, tutte cose che usa per adornarsi di una disciplina (“tanto come ho sempre detto non c’è niente che prometto sì però poi mi sono contraddetto forse perché non rifletto mai al giusto momento); osservare (“il computer mi serve per testimoniare le cose, mezzanotte mi serve per ristabilire un confine tra il dover dire e il poter pensare”); calcolare i rischi (“dimmi le cose che voglio sentire così da capire se posso morire per te”) e poi finire con l’assumerseli (“fammi vedere una foto di mamma da giovane e poi una di adesso, che bella, spero tu faccia lo stesso”).
Niente canzoncine da divano, o da cameretta, o disagio, o crisi, precrisi, post crisi, o riflusso, o riscatto, o impegno, o disimpegno.
Mentre Motta cercava parcheggio e forse lo cerca ancora, Fulminacci vuole fare il giro dei benzinai, e “portarti la sera, la notte che non hai, ché siamo solo noi, e neanche vivi con i tuoi”. Il coraggio può essere una cosa semplice, e una questione privata, persino quotidiana.
Dev’essere una faccenda cruciale, questa degli anni, perché viviamo in un paese pigro, dove conta più l’età dell’identità
E’ passato un tempo lungo e disperato, e non è passato invano: il presente di tutti è un risveglio, assomiglia a un dovere, e questo passaggio lo canta, avendolo capito piuttosto bene, un ventiduenne di Roma senza accento romanesco, quella cosa di cui molti suoi colleghi poco più giovani o poco più anziani si sono serviti per dire che avevano costruito “una scena musicale”. La scena romana, la grande fiction incompiuta della generazione incompiuta. A Fulminacci l’incompiutezza non piace, figuriamoci, lui rincorre un flusso d’aranciata con il bicchiere per non sprecare l’aranciata e tener pieno il bicchiere, ché è sempre meglio un bicchiere pieno di uno mezzo pieno e quindi mezzo vuoto, è sempre meglio il fatto dell’opinione, l’oggettivo del soggettivo.
“Se parlassi io in romano stretto non sarei credibile in primis per me stesso”, ha detto parlando di trapper più o meno suoi coetanei, e tuttavia così diversi e distanti da lui, anche se, in fondo, spinti come lui da una specie di saggezza.
E’ passato un tempo lungo, disperato e inattivo, e agli annichiliti (quelli accusati di essere choosy) non sono succeduti gli zombie, ma i fattivi, quelli che restano in piedi e non barcollano sui tacchi che ballano, e anziché vedere le macerie come macerie, le vedono come un tutto da rifare. Gli sdraiati hanno ceduto il posto a borghesi nient’affatto piccoli piccoli. Ma chi, direte voi, quei furboni che trovano lavoro su Instagram, e monetizzano il grande amore che provano per loro stessi? Almeno Niccolò Contessa dei Cani, il capo millennial degli indie, ormai quasi padre, cantava di “monetizzare questo nostro grande amore” e ci metteva un condizionale, un “dovremmo monetizzare”. Quanto siete diffidenti.
“Se parlassi io in romano stretto non sarei credibile in primis per me stesso”, ha detto parlando di trapper della “scena romana”
Fulminacci su Instagram non è un campione, ha postato finora meno di cinquantina di foto, e in molte sta maluccio, gli si vedono le occhiaie, e non quelle da fumo, o da sonno, ma quelle da allergia; segue trentacinque persone, e di suoi colleghi soltanto Gazzelle, Fabri Fibra, Motta, Gemitaiz e Canova. YouTube non lo usa e non l’ha mai usato. Le canzoni ha cominciato a scriverle a sedici anni, poi le ha fatte ascoltare a casa, qualcuno gli ha detto che erano buone, suo fratello lo ha convinto a farle ascoltare a chi ne capisse qualcosa, lui ha preparato un pacchetto e l’ha mandato alla Maciste Dischi, che poco più tardi è diventata la sua etichetta. Che storia novecentesca.
Al suo ultimo concerto a Roma, poco prima di Pasqua, nel pubblico c’era la sua famiglia al completo. Chi c’era, racconta che era molto numerosa, sorpresa, gioviale: una folta squadra di genitori e vicegenitori che lo seguono fintanto che possono, in tutte le sue esibizioni. Dopotutto, questo giovane favoloso è ancora un cucciolo. Un cucciolo borghese di borghesi.
“Sono un ragazzo qualunque di una famiglia canonica, che però ha questa ambizione di fare il cantautore. La domanda è: alla luce di questa conformità ai canoni della vita, posso fare il cantautore?”, ha detto a Rolling Stone, rispondendo a una domanda sulla sua “Borghese in Borghese”, canzoncina (si fa per dire) che se fossimo stati nel 2008 gli sarebbe valsa il bando a vita dal Pigneto, posto che invece ora a Fulminacci vuol lo ama, come fa tutta la città, sebbene lui risponda assai poco allo stampo del pischello romano, il cliché che, se ben portato, garantisce un annetto di gloria a tutti, meritevoli e immeritevoli.
“Borghese in Borghese” fa così: “E’ troppo facile dire che c’hai problemi strani, spesso ad aiutarti è chi c’ha i problemi reali, quegli esseri normali, che leggono i giornali, quelli con una moglie, un lavoro, un figlio e due cani, che la notte dormono, non si confondono, che se gli parli ti rispondono, gli esseri umani, e stanno bene perché accettano la propria natura, non fanno come te che cerchi sempre una cura, non hanno né tempo né voglia di avere paura”. Commozione (scusate, è l’età) per quel “esseri normali che leggono i giornali”, ché l’ultima musicista a tirare in ballo i giornali è stata Ornella Vanoni due Sanremo fa, e via per sempre il senso di colpa per il desiderio di essere come tutti e il senso di sconfitta per voler essere persone normali, due cose da cui i millennial dieci anni più vecchi di Fulminacci non si libereranno mai, e nelle quali continueranno a trovare molte scuse per struggersi di uno struggimento invalidante.
E’ la libertà a fare di Fulminacci un giovane favoloso, non ambizioso ma desideroso, non strampalato ma originale, non scorretto ma dritto, ed è in quella libertà che ricorda Jannacci, lo Jannacci di “allora è bello quando tace il water, quando ride un figlio, quando parla Gaber”.
Lo abbiamo letto e scritto spesso, in questi ultimi anni, che nelle famiglie s’era perso l’ascolto, e che quella perdita avrebbe allevato mostri apatici e sociopatici, e invece guardate cos’è successo, è venuto fuori un tipetto che vuole una vita tranquilla, e ha trovato una maniera molto movimentata e irresistibile e divertente di rigettarci in faccia tutta la pigrizia e l’abbandono nella cui denuncia ci siamo imbellettati, perpetrandoli.
O magari è solo fortuna, e Fulminacci arriva da una tipo di famiglia in estinzione, o meno in estinzione di quello che dice l’Istat.
E’ venuto fuori un fulmine a cielo non sereno e cuor comunque contento.
E allora è bello, quando arriva un ventenne che non assomiglia a nessuno, e ha ereditato soltanto il meglio, e vuole portarci la notte e la sera che non abbiamo più.
Per l’amore è ancora presto, arriverà al giusto momento, con la fine dei ventidue anni.